Il fatto che l’Italia sia un Paese in cui la trasformazione digitale rimanga, tutt’oggi, un argomento indigesto a parte considerevole dei cittadini è un fatto acclarato ma quanto emerge dal 3° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, realizzato in collaborazione con Eudaimon (www.eudaimon.it), è addirittura preoccupante.
Dallo studio, infatti, emerge che ben 7 milioni di lavoratori italiani hanno paura di perdere il proprio posto di lavoro a causa dell’arrivo delle nuove tecnologie: dai robot all’intelligenza artificiale. In particolare, quasi un operaio su due vede il proprio lavoro a rischio. L’85% dei lavoratori esprime una qualche paura o preoccupazione per l’impatto atteso della rivoluzione tecnologica e digitale (il dato supera l’89% tra gli operai). Per il 50% si imporranno ritmi di lavoro più intensi, per il 43% si dilateranno gli orari di lavoro, per il 33% (il 43% tra gli operai) si lavorerà peggio di oggi, per il 28% (il 33% tra gli operai) la sicurezza non migliorerà. Come se ciò non bastasse, i lavoratori italiani sono tendenzialmente rassegnati a buste paga più leggere, minori protezioni, maggiori conflitti. Ben il 70% dei lavoratori, infatti, teme la riduzione di redditi e tutele sociali. Per il 58% (il 63% tra gli operai) in futuro si guadagnerà meno di oggi.
Tuttavia, al di là, delle paure più o meno legittime, due questioni vanno immediatamente chiarite. La prima è che il mondo del lavoro è destinato a cambiare, anche in maniera radicale. Questo è un dato di fatto incontrovertibile che fonda le proprie ragioni nelle radici della storia. L’unica differenza rispetto al passato è che oggi i cambiamenti sono ancora più rapidi che in passato. Pertanto, l’unica strategia valida è quella di adeguarsi al cambiamento.
E questo richiama la seconda questione, che è relativa alle competenze. Gli italiani hanno livelli di competenze mediamente più ridotte rispetto a quelle degli altri cittadini europei, con inevitabili ripercussioni sulla competitività personale e nazionale.
Il nostro Paese, infatti, incontra maggiori difficoltà rispetto agli altri nell’adottare una cultura delle competenze adeguata e in grado di sostenere la crescita. Una mancanza di competenze che molto spesso parte dai vertici e si diffonde verso la base del sistema produttivo e dirigenziale. Senza adeguate competenze è inutile anche incentivare il rinnovamento dei macchinari e degli strumenti a nostra disposizione che rischiano di essere degli “enormi fermacarte polverosi” in assenza di qualcuno che abbia le necessarie competenze per sfruttarli al meglio. Secondo le stime 2019 della Banca Mondiale, gli investimenti necessari ad aggiornare il nostro sistema universitario a quelli europei oscillano tra i 7 e i 12 miliardi di euro, una cifra che rende l’idea degli sforzi che ancora occorrono per recuperare il margine perso. L’Italia ha bisogno di cospicui investimenti in ricerca e sviluppo per colmare il divario che la separa dalla media degli altri paesi europei. Nella fattispecie, sarebbero necessari investimenti per 3 miliardi di euro nel settore pubblico e 9 in quello privato, in quanto il primo non riesce a compensare i ridotti investimenti del secondo. Le difficoltà nel garantire diffuse ed innovative competenze causano il riverberarsi delle stesse nella competitività lavorativa dei cittadini. Ciò comporta, inoltre, un appesantimento delle spese in previdenza e welfare che sono già una voce di spesa estremamente rilevante per il nostro modello di Stato sociale.
La strada della competitività non può prescindere in alcun modo da quella delle competenze. Se questo messaggio riuscirà ad avere la meglio nel nostro Paese si intraprenderà la strada di uno sviluppo sostenibile che permette a tutti i cittadini di prosperare e di crescere in un sistema coeso e rafforzato.