Quando si parla di robotizzazione o intelligenza artificiale, più che sull’aspetto utilitaristico bisognerebbe concentrarsi sulle implicazioni economiche, politico e, soprattutto etiche. Senza scomodare il pensiero visionario (o precursore?) di Asimov, stiamo progressivamente prendendo l’abitudine a vederci affiancata l’IA e la robotica nelle nostre attività quotidiane. Eppure, col progredire di questa presenza crescono parallelamente anche gli interrogativi riguardo quale ruolo e quale inquadramento giuridico (e se questo sia possibile) debba essere riservato a dei soggetti, chiaramente non vivi, ma che sviluppano strumenti di apprendimento rapidi e molto simili a quelli umani.
Sembrerebbe un ragionamento distopico, tuttavia, i temi dell’etica e della giurisprudenza si stanno già interrogando a questo proposito.
I robot devono essere considerati delle cose? Oppure devono ricondursi alla categoria dei prodotti? O che?
La disciplina europea, l’unica allo stato attuale applicabile (direttiva 374/85), qualifica i robot come prodotto e costruisce un sistema di responsabilità oggettiva nel quale non vi è spazio per i concetti di colpa o dolo nell’ipotesi di prodotto difettoso.
La scelta legislativa semplifica l’attività del danneggiato alleggerendo l’onere della prova in capo a quest’ultimo. Tuttavia, pur ricostruendo come responsabilità oggettiva il danno da robot, si deve rilevare la presenza di problemi in termini di individuazione e prova del nesso causale, se si considera che l’elemento essenziale per il funzionamento dei robot è l’algoritmo che non può in alcun modo definirsi un semplice prodotto.
La prova del nesso causale diventa particolarmente difficile spostandosi su aspetti tecnici di particolare rilevanza e difficoltà. In termini generali, potremmo affermare che i robot hanno capacità cognitiva, hanno altresì capacità volitiva, che però non raggiunge come ovvio il pieno libero arbitrio essendo le scelte e condotte dei robot programmate e programmabili. Tanto è vero che le tecnologie di machine e deep learning consentono una grande capacità di apprendimento ai robot.
In Europa non vi è alcuna distinzione tra le molteplici fattispecie di difetto del robot.
Negli Usa invece vi è una tripartizione tra:
- responsabilità per difetto di fabbrica nella quale si prescinde dalla colpa;
- responsabilità del programmatore;
- responsabilità per carenza di informazioni al consumatore.
In ambito Ue la direttiva non differenzia le varie ipotesi e in essa si adotta il modello della responsabilità oggettiva con due fattispecie di esclusione di responsabilità:
- non responsabilità per vetustà tecnica del prodotto;
- non responsabilità per rischio di danno da sviluppo del software e della macchina.
Evidentemente, è opportuno chiedersi se sia necessaria una legislazione speciale per i robot.
La questione è da affrontare tutt’altro che con leggerezza o in semplice punta di diritto e mostra, anzi, notevoli implicazioni anche dal punto di vista etico, morale e umanistico.
Giorni fa, ad esempio, il giornale Avvenire – emanazione dei vescovi e tradizionalmente molto vicino alla Chiesa e ai temi etici – ha pubblicato un interessante articolo riguardante «L’evangelizzazione dei robot, una nuova sfida», un tema per certi versi sorprendente. Come abbiamo visto, infatti, stiamo ancora cercando di inquadrare i robot dal punto di vista giuridico ma la Chiesa già si pone un problema ancora più elevato. Secondo la rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica “I preconcetti e le parzialità nella scrittura degli algoritmi sono inevitabili. E possono avere effetti molto negativi sui diritti individuali, sulle scelte, sulla collocazione dei lavoratori e sulla protezione dei consumatori. I ricercatori hanno rilevato pregiudizi di vario tipo presenti negli algoritmi, in software adottati per le ammissioni universitarie, le risorse umane, i rating del credito, le banche, i sistemi di sostegno dell’infanzia, i dispositivi di sicurezza sociale e altro ancora. Gli algoritmi non sono neutri. La crescente dipendenza della socio-economia dall’informazione artificiale conferisce un enorme potere a coloro che programmano gli algoritmi”.
Secondo questa visione, quindi, i robot risentirebbero in prima istanza di una sorta di “peccato originale” insito in loro in fase di programmazione dai loro creatori che, in quanto essere umani, non possono in alcun modo essere scevri dal condizionare, anche involontariamente, il successivo processo cognitivo dell’IA.
Di conseguenza, sarebbe necessario trasmettere i valori più puri dei vangeli per cambiare in meglio l’approccio ad una tecnologia che sarà protagonista del XXI Secolo.
Infine, ciò che rimane di questa analisi è la sensazione di essere soltanto agli albori non solo di una semplice tecnologia abilitante che condizionerà i processi economici e sociali di questo e, probabilmente, anche del prossimo secolo ma di una vera e propria rivoluzione i cui risvolti sono stati solo parzialmente immaginati dalla letteratura di fantascienza. 150 anni fa, Jules Verne aveva immaginato un mondo profondamente diverso da quello in cui viveva, così come, successivamente, Isaac Asimov, Philip K. Dick e tanti altri, ciò che ci attende è solo l’inizio di un grande e nuovo percorso che dobbiamo essere già oggi pronti ad affrontare con entusiasmo e consapevolezza.