Cosa significa oggi lavorare nei settori Finanza, Banche e Assicurazioni? Quali identità, valori e competenze portano le persone con sé in ufficio e cosa resta fuori? A queste domande risponde il report “People IN FBA”, realizzato dall’Osservatorio Vita-Lavoro di Lifeed – la piattaforma digitale di sviluppo che permette alle organizzazioni di migliorare performance, retention ed engagement portando in azienda tutte le competenze della vita delle persone – con il supporto dello strumento di sviluppo MULTIME® Finder – che ha coinvolto oltre 2.200 professionisti e professioniste di 10 aziende italiane del settore.
Il progetto nasce dalla volontà, alla base della missione di Lifeed, di costruire una cultura organizzativa capace di valorizzare l’essere umano e di mostrare come i tradizionali approcci alla gestione del talento non bastano più: per attrarre, trattenere e far crescere le persone, le aziende devono comprendere e valorizzare la complessità dell’identità umana. Il report propone così una nuova mappa: più ampia, più realistica e più attenta a ciò che spesso rimane invisibile nei contesti organizzativi.
L’identità molteplice delle persone FBA: il report
Non solo “bancari”, ma anche partner, genitori, amici, sportivi. Ogni persona nel settore FBA ricopre in media 5 ruoli tra sfera personale e professionale (rispetto alla media di 5,5 ruoli riconosciuti negli altri settori). Infatti, a differenza di altri ambiti lavorativi, in questo settore la componente lavorativa pesa di più (+10% rispetto alla media), esponendo a maggior rischio di sbilanciamento tra vita e lavoro.
Sia le donne che gli uomini mostrano una forte identificazione con il ruolo di professionista, oltre l’80% per entrambi, percentuale più alta rispetto alla media degli altri settori (che si aggira attorno al 75% per le donne e al 76% per gli uomini). Sempre riguardo l’aspetto lavorativo, per le donne prevale l’identificazione con l’essere collega (33%), mentre per gli uomini con l’essere manager (32%), in linea con la media. In generale, quindi, sia per le donne che per gli uomini, la sfera lavorativa ricopre una parte importante dell’identità. Nonostante questo, nelle prime emerge una minore identificazione nei ruoli lavorativi rispetto ai colleghi uomini (42% contro il 45%).
Donne e uomini differiscono però nelle sfumature identitarie: se le prime si riconoscono maggiormente in ruoli personali come partner (50%), amica (50%), figlia (47%), madre (43%) e donna (23%), esprimendo più spesso tratti relazionali come affettuosità, emotività e ironia, gli uomini si identificano di più nei ruoli di partner (44%), amico (40%), figlio (33%), padre (32%) e sportivo (24%), e tendono a definirsi più competitivi e riservati.
È interessante notare come uomini e donne costruiscono la propria identità e stabiliscono le proprie priorità in modi differenti: le donne tendono a definirsi maggiormente attraverso il genere (cioè l’essere donna), mentre gli uomini lo fanno più spesso attraverso aspetti come l’essere sportivi, il ruolo sociale che ricoprono o le proprie passioni personali.
Inoltre, idati analizzati suggeriscono che la composizione dell’identità influisce anche sul modo di vivere il lavoro – e sul tipo di risorse che si è pronti a portare in azienda. Oltre alla gabbia del ruolo professionale, infatti, c’è un grande potenziale inespresso dato dai tratti personali che le persone potrebbero portare sul posto di lavoro (che potrebbe raggiungere il +40%).
“Questi dati mostrano che il talento non si esaurisce nel ruolo professionale. Per questo motivo, risulta di fondamentale importanza riconoscere la complessità di identità e risorse che le persone possono portare sul posto di lavoro, spesso invisibili ma preziosissime. Imparare a riconoscerle e valorizzarle è la chiave per abbattere gli stereotipi, costruire ambienti lavorativi più inclusivi e costruire un nuovo paradigma del lavoro fondato sulla cura (delle persone e del lavoro stesso).” – ha commentato Riccarda Zezza, founder e Chief Scientific Officer di Lifeed.
Generazioni a confronto: dalla responsabilità alla creatività
La Generazione Z è quella che più sorprende: si identifica nei ruoli professionali più della media delle aziende Caring Company[1] (+17%) e persino più dei Millennials (+8%). La forte identificazione con la sfera lavorativa non dipende quindi dal tempo di permanenza nel settore, fatto che va a rompere con lo stereotipo che vede tendenzialmente la Generazione Z come quella più attenta al work-life balance. È anche la generazione che esprime i tratti più estroversi e relazionali (es. 44% di “spiritosità” rispetto ai Boomer 13%). I Millennials sono premurosi, affettuosi e ironici; la Gen X è più matura e riflessiva; mentre i Boomer si distinguono per essere i più assertivi (30%) e “non convenzionali” (29%) del campione.
Tutte le generazioni, però, condividono una palestra di risorse e soft skill comune: il ruolo dell’amicizia, che rimane tra i più riconosciuti e attivati a qualsiasi età (58% per Gen Z e 51% per Millennials, 36% per Gen X). L’amicizia funge infatti da spazio in cui le persone possono sviluppare competenze relazionali e personali, utili anche sul lavoro.
“Possiamo dire che questi dati ci sorprendono. Abbiamo rilevato, infatti, come la GenZ si identifichi nel proprio ruolo professionale molto più della media, superando anche i Millennials, e questo è un chiaro segnale in contrasto con lo stereotipo che vuole i giovani poco legati al lavoro. Interessante notare poi come la GenZ sia la generazione più relazionale ed estroversa. Ma se c’è una cosa che accomuna tutte le generazioni è il valore dell’amicizia, riconosciuta come spazio di sviluppo di soft skill essenziali, anche in ambito professionale” prosegue Riccarda Zezza.
Transilienza: il ponte tra vita e lavoro
Nel report si affronta anche il concetto di “transilienza”, concetto sviluppato da Riccarda Zezza ed entrato come neologismo nella Treccani dal 2023, ossia la capacità di trasferire risorse personali – come empatia, creatività o leadership – nel contesto lavorativo. L’68% dei partecipanti si sente pronto a farlo, aprendo la strada a una professionalità più autentica, umana e coinvolta. Chi dice no (5%) lo fa per cultura aziendale: pensa, ad esempio, di non poter portare la propria “spiritosità” sul posto di lavoro.
In conclusione, afferma Riccarda Zezza, “l’analisi condotta sulle aziende dei settori FBA conferma la necessità del cambio di prospettiva che Lifeed porta avanti da dieci anni: riconoscere la ricchezza identitaria delle persone, valorizzare i ruoli “nascosti” per accenderli e attrarre ciò che serve, costruire ponti tra le diversità generazionali e abbracciare la complessità come risorsa, non come ostacolo. Perché le competenze soft, se viste, attivate e integrate, possono fare la differenza, oggi più che mai.”