Seguendo la definizione istituzionale classica, siamo abituati a considerare uno Stato come l’insieme di tre elementi fondamentali senza i quali non potrebbe esistere: il territorio, i cittadini e un ordinamento politico e giuridico.
Eppure, il XXI secolo ci sta portando ad una rivisitazione del concetto stesso di Stato fornendoci dei contorni molto più vaghi di questi sopra definiti, anche se ad essi sostanzialmente riconducibili.
Ci troviamo, infatti, di fronte alla nascita di quelle che Antonio Pilati sul Sole 24Ore del 26 novembre definisce “Le Repubbliche tecnologiche indipendenti”. Secondo l’analisi fornitaci da Pilati, tali “Repubbliche” sono una diretta conseguenza del mutamento politico accorso tra il XX e il XXI secolo. La progressiva, e talvolta rapida e traumatica, disgregazione di praticamente tutti gli imperi che avevano prosperato per secoli e la fine del colonialismo (territoriale ma non di quello culturale) hanno portato all’affermazione definitiva degli Stati nazionali che da allora – fino agli anni Novanta inoltrati – hanno continuato a formarsi e a moltiplicarsi.
Le grandi compagnie tecnologiche internazionali stanno progressivamente esercitando un’influenza più politica che puramente commerciale assumendo anche alcuni dei principali connotati propri dello Stato. Prendiamo Facebook ad esempio. Il Social network più famoso del mondo dichiara 2,38 miliardi di utenti globali, questa sarebbe la sua popolazione. A breve, poi, ci sarà la costituzione di un Consiglio di sorveglianza che avrà il compito di giudicare le controversie con gli utenti, e chissà magari anche tra di loro: il potere giudiziario. Il potere esecutivo, dal prossimo gennaio, sarà formalmente esercitato dal Board di controllo dell’azienda, al vertice del quale rimane il buon Zuckerberg: il Presidente. Ma non basta. Se già queste peculiarità ripercorrono, magari anche casualmente o per semplice comodità, le principali caratteristiche costitutive di uno Stato, col progetto Libra Facebook si propone anche di “battere moneta”, garantendosi una sorta di autonomia finanziaria e monetaria che ha però notevoli riflessi su tutti gli altri paesi del mondo. Inoltre, così come leggiamo sull’articolo del Sole, “Facebook intrattiene con la sua enorme platea di utenti uno scambio che per certi versi ricorda la tassazione: come corrispettivo di servizi per lo più gratuiti esercita un cospicuo prelievo di valore dal suo popolo”, si tratta del mercato dei dati.
A ciò, si aggiunge la sostanziale autonomia fiscale rispetto all’aleatorietà della sede fisica dell’azienda che permette a Facebook di godere di una indipendenza notevole rispetto al concerto degli Stati con i quali si trova a operare. Certo, al di là delle iperboli e delle accentuazioni (in realtà per nulla forzate) non possiamo ancora parlare di uno Stato, almeno secondo i canoni classici del diritto, perché se pure manca l’esclusività dell’esercizio della forza e della polizia all’interno del proprio territorio, l’influenza politica e culturale esterna e interna è decisamente marcata.
Ma queste nuove “repubbliche del web” vivono di una doppia identità: grandi operatori indipendenti quasi a-territoriali e, come ci dice Pilati, “giganti al servizio di una rinascente idea imperiale” al servizio, soprattutto di paesi che esercitano una politica autoritaria. Questo è quello che sta avvenendo per quanto riguarda, ad esempio, la Cina per cui i proprio giganti del web sono dei veri e propri strumenti di espansione commerciale e politica.
Per concludere, è affascinante quanto pericoloso osservare “l’ambivalenza delle repubbliche tecnologiche che da un lato sconvolgono i sistemi politici e dall’altro formano un asset d’avanguardia che fronteggia le risorse digitali degli stati autoritari” – sempre seguendo le affascinanti parole di Antonio Pilati. Ci troviamo in presenza di un nuovo modello di Stato fluido che non risponde più alle caratteristiche classiche col quale “gli stati tradizionali” devono imparare presto a confrontarsi, non tanto per la tutela di loro stessi ma per la salvaguardia del principio democratico che è il fondamento della nostra cultura politica.