L’impatto del coronavirus è destinato a creare mutamenti profondi e permanenti sia dal punto di vista sociale sia dal punto di vista economico creando nuovi dislivelli ma anche nuove opportunità di cui si stanno già avvantaggiando un pugno di grandi aziende che emergeranno dalla crisi ancora più grandi e rafforzate. Parliamo degli operatori tecnologici software e hardware che oggi, in questo momento di crisi e quarantena sono divenuti ancora più indispensabili per sostenerci nelle nostre attività.
Varie analisi autorevoli testimoniano che alla fine della pandemia il digitale non solo rimarrà intanto ma sarà, addirittura, rafforzato, accrescendo la nostra dipendenza nei confronti suoi, delle aziende e degli stati che detengono questo potere.
Da questo punto di vista, i conflitti che stavamo affrontando già mesi fa saranno presto estremizzati e ancora più evidenti a causa proprio della nuova tensione e delle spinte centrifughe internazionali. Lo scontro tra i due modelli economici, di business e di società di Cina e Stati Uniti, diversissimi tra loro ma del tutto sovrapponibili, sarà ancora più accesso e portato avanti dai rispettivi giganti tecnologici, dando vita ad uno scontro che da “freddo” rischia ogni giorno di diventare sempre più caldo. Nel mezzo, di questo scenario vi è un’Europa contesa da entrambi che non possiede alcuno di questi player e che cerca di sopravvivere agli strattoni. L’Europa non ha seguito la via del “gigantismo” che riguarda le compagnie innovative e rappresenta un territorio in cui vi è più concorrenza e frammentazione in cui il GDPR da solo non può bastare per controllare l’avanzata di queste grandi imprese.
Questa è, sostanzialmente, la visione della Commissione UE più volte illustrata da Margrethe Vestager nel corso degli ultimi mesi. Il commissario UE alla concorrenza, infatti, aveva già dichiarato nel corso di vari interventi che “L’Unione europea non deve aiutare la costituzione di colossi industriali ma lasciare che sia la concorrenza a stimolarne la creazione”. Secondo il suo punto di vista “l’industria europea non è solo fatta di colossi, ma è un ecosistema di aziende di tutte le dimensioni e questa è una delle ragioni della resilienza dell’economia europea” e ha proseguito dicendo che “dobbiamo difendere le nostre aziende quando affrontano pratiche sleali, ma non abbiamo un programma per creare campioni europei e non dovremmo avere un tale programma”.
Tali dichiarazioni, che suonavano un po’ come una resa nell’impossibilità di compensare l’ormai ampio divario con le altre grandi aziende e un po’ come un manifesto programmatico entro cui inserirsi, non erano, ovviamente, piaciute a molti che avevano denunciato un atteggiamento fin troppo remissivo da parte di un’entità economica e politica tra le più grandi al mondo. Il timore più grande di questo genere di politica è che l’UE possa presto diventare una “terra di conquista” per i grandi gruppi industriali e le imprese tecnologiche internazionali, diventando, sostanzialmente, una preda per le imprese di Stati Uniti, Cina e anche di Russia e India.
Ebbene, ci troviamo sulla soglia dello scenario post covid-19, quello in cui dobbiamo già ripensare al futuro e alla ricostruzione di un tessuto economico, imprenditoriale e sociale dalle macerie che questi mesi di pandemia e lockdown hanno portato. La necessità è quella di intraprendere misure straordinarie, mai viste prima d’ora per affrontare la sfida e, con queste premesse, la necessità da parte dell’UE è probabilmente quella di mettere da parte un po’ di quel dogmatismo concorrenziale che l’ha caratterizzata fino ad oggi e di investire pesantemente nello sviluppo delle eccellenze tecnologiche su cui pure oggi, nonostante tutto, possiamo contare.
Ora più che mai abbiamo bisogno di industrie più grandi in grado di competere con i più grandi per evitare che sole, piccole e frammentate siano inglobate una per una o neutralizzate senza riuscire ad opporre la minima resistenza. Questo vale per le indebolite imprese nazionali così come per tutti quegli attori europei che sarebbero in grado di esprimere eccellenza anche in un momento di crisi.
La terza rivoluzione industriale è disruptive e i grandi paesi, come Cina e USA, ne sono così coscienti che si sono mossi per tempo. L’Europa purtroppo appare come il classico vaso di coccio. Basti leggere i documenti di politica industriale dei governi americano e cinese per avere davanti con chiarezza la loro strategia, che parte dalle materie prime. Gli States da almeno 5 anni godono dell’indipendenza energetica e la Cina nel frattempo si è mossa per accaparrarsi le materie prime in Africa. In questo modo, hanno reso i propri apparati industriali sicuri e indipendenti. Inoltre, al centro della loro nuova dimensione politica hanno posto una difesa centrata sulla cyber security e finalizzata a produrre ricadute tecnologiche per usi civili.
Se spezzettati, pur portatori di eccellenze nessuno dei paesi europei – anche quelli più organizzati e collaborativi tra loro come Francia e Germania che pure hanno realizzato un manifesto programmatico comune – è in grado di competere con i big stranieri. Per questo motivo, ci servono campioni europei ed abbiamo il bisogno di ripensare ad antitrust ed aiuti. La tutela della concorrenza è un valore, ma non può essere un cieco obiettivo da perseguire a scapito del ruolo internazionale di un continente che rischierebbe, altrimenti, di affogare di normativa mentre gli altri corrono verso il futuro.
C’è poi un aspetto puramente politico che andrebbe affrontato e che riguarda la riottosità di noi europei che preferiamo competere per prevalere tra di noi piuttosto che fare gruppo. Una mancanza di solidarietà spesso fin troppo evidente nelle ultime settimane e che sta mettendo letteralmente a repentaglio il grand design di una UE protagonista nel presente e nel futuro.
Un cambiamento culturale questo da cui non si può prescindere e che dovremmo capire il prima possibile per evitare di essere una semplice terra periferica di un mondo polarizzato.