Per diversi anni, la concezione cinese dell’innovazione è stata quasi gattopardesca. Secondo la teoria del “cambiamento” di Zhang Zhidong, infatti, che attinge dalla matrice culturale confuciana, era possibile innovare senza che ciò comportasse necessariamente un cambiamento culturale o sostanziali intromissioni nel sistema politico. Secondo quanto emerge dal bel saggio di Federico Brusadelli per l’edizione di novembre di Start Magazine, Zhang “proponeva di interpretare la modernità occidentale come puramente funzionale: le innovazioni tecnologiche militari e scientifiche potevano essere acquisite dalla Cina senza per questo intaccare la struttura millenaria dell’impero”. Un punto di vista questo che creava per la Cina i presupposti per un totale cambiamento nella struttura economica e persino sociale, mantenendo però non solo inalterato ma più saldo che mai il sistema politico così come era stato inizialmente concepito.
D’altra parte, questo genere di approccio politico ed economico aveva da sempre caratterizzato i regnanti cinesi, tanto legati alla tradizione e alle regole quanto disposti alle innovazioni tecnologiche. Basti pensare che la Cina è stata per secoli la regione tecnologicamente e socialmente più avanzata del pianeta, mentre noi europei cercavamo ancora di emergere dal Medioevo.
I principi di Zhang non hanno salvato l’impero cinese dal suo declino ma hanno posto le basi per la rinascita. Mentre, infatti, affrontava la sua fase calante, la Cina aveva però capito che per emergere avrebbe dovuto ripartire dallo studio all’estero e dall’analisi dei prodotti occidentali che hanno iniziato a copiare per apprenderne i segreti e migliorarli.
Nel suo viaggio nella storia della Cina, Brusadelli ci racconta che il passaggio dell’impero alla repubblica, difficoltoso dal punto di vista sociale e politico, ha agevolato il progresso dell’innovazione in Cina, spinto da un regime che vedeva in se stesso il “nuovo che avanza” sulle ceneri di ciò che fu. Questo spirito è stato poi rinsaldato dal legame con l’Unione Sovietica in cui “socialismo e innovazione marciavano di pari passo”.
Dalla seconda metà degli anni Settanta la Cina ha iniziato a correre, pur nell’alveo di una politica estremamente rigida e riluttante ai cambiamenti. Ciò è dimostrato anche dal fatto che, in parziale ottemperanza con i principi di Zhang Zhidong di cui abbiamo detto all’inizio, una sostanziale democratizzazione del paese era una possibilità presa in considerazione solo da parte dei commentatori esterni, ma non dai politici locali.
Oggi, infatti, assistiamo alla crescita di uno dei paesi più avanzati tecnologicamente al mondo ma anche rinchiusi in un regime politico tutt’altro che liberale, a evidenza del fatto che la democrazia non è la condizione imprescindibile per ottenere la crescita e l’innovazione economica. Come se non bastasse, mentre per frequenti fasi del passato la crescita cinese si era avvalsa soprattutto del mercato interno e dell’esportazione all’estero di prodotti di bassa qualità, da qualche tempo il paese si sta aprendo commercialmente all’esterno mostrando tutta la sua capacità espansiva.
Nel bel saggio pubblicato su StartMag, emerge chiaramente il messaggio che l’innovazione cinese è stata addirittura favorita dal regime politico autoritario, un presupposto che – pur non rappresentando certo un modello – dovrebbe però far riflettere noi europei.