di Maurizio Pimpinella
Sentendo spesso parlare di trasformazione digitale, di metaverso, di criptovalute, di identità digitale, di pagamentielettronici, di blockchain, di machine learning eccetera, perdiamo talvolta di vista quello che si potrebbe definire il grand design che accomuna queste “tecnologie”, ovvero il fatto che sono tutte espressione di uno stesso ecosistema e che, come tali, andrebbero vissute.
Oggi, per vivere nella nostra società, nel nostro ecosistema, ci sono richieste alcune competenze base tra cui saper leggere, saper scrivere, contare ma anche essere in grado di padroneggiare gli strumenti digitali, sia quelli più datati, come ad esempio le e-mail, sia quelli di più recente generazione. Esiste però un livello minimo di competenze che ciascuno di noi, anche per essere anche considerato un cittadino attivo, deve possedere proprio mentre le competenze in ambito digitale stanno rapidamente compiendo il passaggio da competenze avanzate a competenze di base. Da qui al 2030, infatti, compariranno e scompariranno un gran numero di professioni proprio in virtù di una maggiore presenza del digitale nelle nostre vite, con la necessità di possedere competenze a cavallo tra quelle tradizionali e quelle digitali. Fare, ad esempio, l’avvocato o il giudice in cause nel metaverso richiederà sia la conoscenza del diritto (e verosimilmente degli aggiornamenti dello stesso) sia del contesto e delle dinamiche in cui questo si applica.
Simili ipotesi possono sembrare ancora molto remote eppure JP Morgan, una delle principali banche d’affari al mondo, ha deciso di aprire una filiale su Decentraland con servizi e un customer service di tutto punto. Questo non è però l’unico caso, e la nuova “Frontiera” – intesa qui con l’accezione avventurosa e romantica che guidava i pionieri del vecchio west – del metaverso è un territorio nel quale vogliono stabilirsi sempre più aziende, soprattutto non tecnologiche, da Nike a Ferrari. Stiamo quindi assistendo al passaggio dalla fruizione dei contenuti e servizi digitali “nel nostro mondo” a vivere in un contesto in cui la distinzione tra reale e virtuale perde quasi del tutto di significato. Ma noi e le giovani generazioni italiane sono pronte a questo cambiamento? In Italia, più di 8 giovani su 10 ritengono di avere nozioni social, ma soltanto 1 su 5 pensa di disporre di una formazione adeguata e funzionale al mondo del lavoro. A stabilirlo è il report Digital Skill Index promosso da Salesforce, dal quale emerge che le giovani generazioni italiane, pur consapevoli, siano ancora attardate per quanto riguarda tale ambito.
Facendo un confronto tra questi dati e quelli degli altri arcinoti indici di digitalizzazione umana emerge che l’Italia si colloca al di sotto della media. La chiave di volta di un fenomeno altrimenti destinato a condannarci non solo nel breve ma anche nel lungo periodo risiede proprio nel livello di consapevolezza cui è stato fatto cenno prima in quanto molti giovani (e non solo) stanno progressivamente intraprendendo percorsi di upskilling e corsi di aggiornamento professionale. Questa deve essere accolta come la vera buona notizia che lascia aperto uno spiraglio di speranza sulla competitività della nostra economia e della nostra società nel prossimo decennio. D’altra parte, al di là dei programmi di sviluppo ed incentivi governativi (che pure sono importanti), ognuno di noi deve decidere che tipo di cittadino intende essere, assumendo autonomamente le iniziative per migliorare il proprio futuro, anche dalla self accountability, e dall’assunzione di responsabilità, dipende se saremo o no veri cittadini della società del futuro.