Nel mezzo della guerra ad alta intensità in fase di svolgimento in Ucraina, è in corso un confronto a bassa latente a bassa intensità, con numerosi risvolti commerciali, culturali e tecnologici tra Stati Uniti e Cina, il quale, secondo diversi commentatori sarà la vera sfida planetaria che segnerà il XXI Secolo. Da ultimo, il confronto è sfociato in un divieto per i dipendenti pubblici sensibili di avere installata l’app cinese TikTok, cui ha fatto seguito la risposta di Pechino di bloccare app e giornali occidentali.
Per fare più chiarezza su quanto sta succedendo, abbiamo intervistato Maurizio Pimpinella, presidente A.P.S.P., che già in altre occasioni ha commentato il rapporto tecnologico tra le due potenze.
Prof. Pimpinella, lei in vari interventi e articoli ha evidenziato la disparità di trattamento interna ed esterna nei confronti delle big tech tra Occidente e Cina. Come si è evoluta nel tempo questa situazione?
Parlando di Occidente, ci riferiamo soprattutto agli Stati Uniti e, in tal caso, il confronto dell’approccio nei confronti delle rispettive big tech tra USA e Cina ha sia similitudini sia profondi aspetti di differenza. E non potrebbe che essere così. Entrambi i Paesi, infatti, hanno cercato a più riprese di limitare lo strapotere di queste aziende tecnologiche per evitare che diventassero “più potenti” del Governo centrale. Concorrenza, privacy, contrasto alle discriminazioni e alle false notizie sono, ad esempio, alcuni degli ambiti in cui il Governo statunitense è attualmente impegnato, mentre è stata più volte accarezzata l’idea di promuovere iniziative legislative in stile Standard Oil Act, ovvero lo scorporo delle aziende in diverse imprese più piccole.
Dal lato cinese, il contrasto alle big tech si è tradotto in una serie di multe e di limitazioni che, tra l’altro, cozzano con un approccio laissez faire precedente che le ha fatte crescere in totale libertà. Nelle premesse, quindi, vi sono diversi aspetti di contatto tra i due paesi, anche se i metodi, gli scopi ultimi e le conclusioni cui giungono sono in effetti profondamente divergenti.
In cosa si concretizza il diverso approccio?
A partire dall’ostracismo verso l’Ipo record di Ant Financial, il governo cinese ha più e più volte messo il bastone tra le ruote alle sue big tech: da Tencent ad Alibaba a Baidu, ByteDance eccetera. Per le big tech cinesi, come ha evidenziato poi anche il caso di Didi, è finito il tempo dell’espansione incontrollata e anche la richiesta di collaborazione ai colossi del fintech come Alipay, WeChat e Ant per lo sviluppo dello Yuan digitale è suonato per certi aspetti più come una cooptazione che come un appello. Non dimentichiamoci a questo proposito la differenza di fondo che risiede nel regime politico e nella società dei due paesi: da un lato una delle più antiche democrazie contemporanee dall’altro un sistema post comunista che rimane a partito unico.
Gli americani, tradizionalmente sostenitori del liberismo più sfrenato e fautori della libertà d’impresa che sta alla base stessa della loro natura impregnata di “calvinismo imprenditoriale”, auspicano (almeno in linea teorica e sempre guidati da ragioni di convenienza) il contrasto dei monopoli allo scopo di favorire la concorrenza e il corretto funzionamento del mercato (fatto che nel 2001 ha già riguardato Microsoft). L’opinione diffusa è che aumentando la concorrenza in determinati ambiti, le imprese siano spronate sia a fare meglio nei confronti dei consumatori sia ad essere maggiormente produttive dal punto di vista dell’innovazione, recando evidenti vantaggi per tutto il sistema.
In effetti, quindi, posto che entrambi gli stati non vogliono che delle imprese private sottraggano loro il monopolio “politico” ed economico, gli Stati Uniti limitano le imprese per favorire il mercato e per equilibrare l’opinione pubblica i cinesi per mantenere l’immagine monolitica composta dalla triade Partito – Stato – Popolo.
Nonostante queste differenze, entrambi utilizzano le rispettive big tech come strumento di politica estera.
Esatto, se sul fronte interno, infatti, cercano di limitare lo strapotere di queste imprese, sul fronte esterno, entrambe le sfruttano per allungare la propria influenza. In questo scenario, le grandi piattaforme tecnologiche sono più che altro delle pedine in un gioco più ampio che vede il confronto tra le due super potenze del XXI secolo Stati Uniti e Cina.
Entrambe poi stanno alzando dei muri digitali…
Il great firewall cinese è ormai diventato famoso. Si tratta di uno strumento politico ed economico. Nel tempo, ha fatto crescere le app nazionali in un ambiente protetto, come dentro ad una bolla, favorendone la diffusione e la crescita. Allo stesso tempo, questo “muro digitale” ha mantenuto in ambito nazionale la gestione dei dati personali dei cinesi – il vero valore protetto dal governo. Con la crescita del benessere interno, però, i cittadini cinesi si sono sentiti un po’ più cittadini del mondo, motivo per cui – anche grazie ai viaggi – hanno voluto provare prodotti occidentali, mantenendosi però estremamente radicate le proprie abitudini nazionali anche all’estero.
Dal canto occidentale, invece, i timori economici sono quasi del tutto assenti: la preoccupazione è che le app cinesi, invadendo i nostri mercati, facciano incetta di informazioni e dati sensibili.
Faccio l’avvocato del diavolo, ma la raccolta a strascico, e talvolta la compravendita di dati, non è simile a quello che fanno anche le app “nostrane”, da Amazon a Facebook?
Questo è vero ma ci sono delle differenze. Se è vero che anche le “nostre” app, i marketplace e i social network operano una raccolta dati a tappeto al fine di profilare e catalogare ciascuno di noi, ciò viene fatto soprattutto a scopi commerciali e direttamente dalle imprese e per le imprese. Inoltre, almeno in Europa, le norme sulla privacy, per quanto imperfette, tendono a creare un ecosistema maggiormente tutelante il consumatore.
Il problema di fondo che riguarda la Cina è, invece, che imprese come TikTok o altre non sono del tutto indipendenti dal potere politico, motivo per cui per il Governo è molto più facile ficcare il naso nei loro database e acquisire informazioni sugli utenti. È evidente che in un periodo teso come questo, quando si parla dei dati di funzionari pubblici stranieri ciò assuma – seppur in toni allarmistici – le tinte di una forma di spionaggio.
Dalla Casa Bianca alla Commissione UE il fronte sembra essere compatto su questo tema.
Almeno su questo direi si. Due aspetti vanno tenuti presenti in questa fase. Il primo riguarda il conflitto ucraino che sta polarizzando e facendo arroccare sulle proprie posizioni le varie parti, più o meno in causa. Il confronto commerciale tra USA e Cina, pur essendone indipendente, si inserisce in questo contesto e ne risente, non è un caso che di recente i botta e risposta tra i due paesi si siano intensificati.
Il secondo elemento concerne poi i rapporti commerciali bilaterali tra i vari paesi. È evidente, ad esempio, da parte occidentale che, nell’ambito di un coordinamento strategico di fondo, ciascun governo intrattenga rapporti (anche molto stretti) con i cinesi, e non c’è nulla di male nel farlo. Questo vale soprattutto per l’Europa.
Ecco, a proposito di Europa, qual è il suo ruolo in questa vicenda?
L’Europa come al solito sta nel mezzo e subisce le situazioni da un lato e dall’altro. L’appartenenza di campo e la convenienza strategica fanno si che nella vicenda il Vecchio continente sia schierato dalla parte occidentale. Tuttavia, un approccio critico sarebbe probabilmente quello più accorto e lungimirante.
Come andrà avanti questa vicenda?
Nel breve periodo, ci sarà una stretta da entrambe le parti. La Cina ha già bloccato varie piattaforme e siti di informazione Occidentali, noi in qualche modo faremo altrettanto. Tenderemo quindi a chiuderci ulteriormente mantenendo però episodici spiragli e linee di comunicazione, più o meno grandi. È una partita a scacchi, però, molto più ampia e questi aspetti – per quanto di grande rilevanza – sono marginali nell’ambito dei rispettivi progetti egemoni. A questo proposito, nei prossimi anni un ruolo fondamentale sarà svolto dalle CBDC. L’insofferenza dei BRICS (ma non solo) nei confronti di un’economia internazionale dollarocentrica è risaputa da tempo, e nell’ambito delle valute digitali la Cina può (almeno a quanto ne sappiamo) un notevole vantaggio nei confronti tanto degli americani quanto di noi europei. Il progetto di espansione commerciale e politica della Cina nel Sud del mondo sta per alzare il sipario. Tirando le fila di quanto seminato in passato, i cinesi vogliono quindi creare un circuito politico-economico (da loro condotto) parallelo e alternativo a quello statunitense, in cui il progetto della Nuova Via della seta si inserisce e che contribuisce ad alimentare.
Il prossimo decennio sarà segnato da questo confronto e le vicende geopolitiche che stiamo affrontando oggi non sono solo un intermezzo ma anche un fattore accelerante con cui dovremo poi fare i conti.