di Francesca Rossetti
Il Coronavirus ha segnato profondamente il ruolo dei media ed oggi ne parliamo con le autrici di un importante libro in materia, “Pandemie mediali”
Chi sono Vania De Luca e Marica Spalletta e come nasce l’idea di un libro insieme?
V:Siamo una docente universitaria e una giornalista “sul campo”. La prima idea del libro è stata della professoressa Spalletta, che tra giugno e luglio 2020, poco dopo il lockdown di primavera, mi ha proposto di pensare insieme a un libro su mediavirus sulla base di una reciproca conoscenza maturata attraverso l’esperienza di Desk, la rivista dell’Ucsi che ha al suo attivo 25 anni di storia, e che sin dalle origini è stata terreno misto tra accademia e redazione offrendo occasionicostanti di confronto e di dialogo tra ricercatori e giornalisti. Negli ultimi 4 anniabbiamo cercato di mettere a fuoco alcune linee di approfondimento sulle grandi problematiche sociali del nostro tempo, intorno a temi di forte attualità come il lavoro, fondamento della nostra Repubblica e miraggio per i giovani, le migrazioni che al di là dei numeri e delle politiche, sono fatte di volti, storie, drammi che ci riguardano… e poi la giustizia, pilastro di ogni democrazia, di città, di valori e modi di vivere che ci rendono comunità. L’ultimo numero era stato dedicato all’ordine delle notizie che, come ha suggerito Papa Francesco all’udienza all’Ucsi del settembre 2019 si potrebbe anche decidere di rovesciare quando si tratta di dare voce a chi non ne ha. Alla luce della pandemia le nostre agende e i nostri programmi erano tutti saltati, ma molti dei nostri temi richiedevano di essere riproposti in forma nuova, poiché la stagione del Covid(tuttora non passata) ci induceva a ripensare, in maniera radicale, un sistema di vita e un’organizzazione sociale in cui i media e gli operatori dell’informazione hanno un ruolo importante. Da vaticanista Rai avevo inoltre seguito quotidianamente la voce del Papa e della Chiesa a indicare un orizzonte di senso euna direzione possibile non solo per i credenti, ma per l’umanità, così l’idea di avviare una riflessione a più voci, che ponesse in relazione diversi mondi, sensibilità e professionalità mi era sembrata una bella opportunità, oltre che personale anche associativa, e così rilanciai: un volume in collaborazione con Ucsi. Ed eccolo qua.
M: Sono professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Link Campus University, e da sempre mi occupo degli effetti sociali prodotti dai media, in particolare del ruolo dei fenomeni giornalistici nei processi di formazione dell’opinione pubblica. L’idea di un libro con Vania De Luca nasce da un’amicizia che, nel corso degli anni, si è declinata anche come collaborazione professionale. Sono infatti convinta che chi ambisce a studiare il giornalismo, e i media in genere, non possa prescindere da un costante confronto con chi quello stesso giornalismo, e quegli stessi media, lo/li vive nella quotidianità della propria esperienza professionale. Tanto più quando l’ottica di analisi abbraccia anche gli aspetti legati all’etica e alla responsabilità dei giornalisti, o quelli connessi alla costruzione delle relazioni fiduciarie. Temi, questi, da sempre particolarmente cari all’Ucsi, di cui Vania De Luca è l’attuale Presidente.
L’idea di “Pandemie mediali” nasce in un momento (la fine di giugno 2020) assai particolare, e non soltanto dal punto di vista sanitario. Il difficoltoso passaggio dal lockdown a quella che, appena pochi mesi orsono, appariva come una ritrovata normalità, suggeriva infatti che fosse arrivato il momento – se non di tracciare un bilancio – quanto meno di cominciare a focalizzare gli aspetti significativi così come quelli più critici che avevano segnato il ruolo dei media nei giorni più bui del Covid. “Pandemie mediali” non vuole dunque offrire delle risposte, bensì proporre delle domande che, come studiosi, professionisti e società civile è nostro dovere porci.
Come è cambiata la comunicazione con l’avvento del Covid19?
V:Rimanderei per una risposta più compiuta a questa domanda ai saggi che compongono il libro, che ha coinvolto più di 70 persone tra le firme e gli intervistati (più di uno analizza i cambi di paradigma della comunicazione e dell’informazione). Il Covid ha accelerato i processi di smart working e di informazione a distanza, ma ha anche accentuato l’esigenza di un giornalismo “capace di distinguere il bene dal male, le scelte umane da quelle disumane”, come aveva invitato il Papa nell’udienza all’Ucsidel settembre 2019, richiamando a una “mescolanza” all’interno della quale non si distingue, e invitando il giornalista – che è il cronista della storia – “a ricostruire la memoria dei fatti, a lavorare per la coesione sociale, a dire la verità ad ogni costo”.
La mescolanza all’interno della quale i giornalisti sono invitati a distinguere è anche quella delle fonti: ufficiali, fiduciarie, informali, che in alcuni casi danno informazioni parziali, o che risultano inquinate… Nonostante l’apparenza di una molteplicità di fonti e strumenti di lavoro disponibili su più piani, la ricostruzione della verità dei fatti è diventata più difficile. L’abbondanza di fake news sul Covid-19 è stata tale che la piattaformaFacebooksi è attivata per «rintracciare e rispondere a falsi miti e voci», el’Organizzazione mondiale della sanità ha sentito il dovere di mettere in guardia dal pericolo dell’infodemia, cioè da quell’abbondanza di informazioni, non tutte accurate, che «rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno». Le fake non sono bugie clamorose, e quindi identificabili, ma sono piuttosto mezze notizie, fatti non verificati, dubbi diffusi ad arte per mettere in discussione le capacità delle autorità di affrontare date situazioni come nel nostro caso la pandemia.
M:È cambiata nel senso che il Covid ha costretto i media a doversi confrontare con qualcosa di più grande e potente, che li ha spogliati del loro ormai consolidato potere di agenda. A questa privazione è tuttavia corrisposta anche una ricchezza, che si è sostanziata in un ampliamento della capacità dei media di fornirci le cornici interpretative attraverso cui leggere una quotidianità totalmente contagiata dal virus. Resta da chiedersi, ovviamente, se i media abbiano fatto o meno buon uso di questa ricchezza.
Quale aiuto possono fornire i media in periodi come questo?
V:L’emergenza sanitaria ha richiesto una serie di misure di limitazione delle libertà individuali, costringendo a ripensare gli spazi del pubblico e del privato, e contemporaneamente ha innescato l’inizio di un processo di trasformazioni profonde nell’ecosistema dei media, che è tutt’altro che concluso. I racconti dei giornalisti sono fatti non solo di parole, dette o scritte, ma anche di immagini, diventate negli ultimi anni determinanti per il sentire comune e per la formazione dell’opinione pubblica. Io credo che in periodi come questo ci sia la necessità di un giornalismo onesto, in grado di fare le domande giuste, di dire la verità non a pezzi o per frammenti, ma per intero,aiutando la ricostruzione dei contesti in cui i fatti si svolgono. Serve inoltre consapevolezza delle conseguenze che possono avere le notizie date, non date, o date in un modo piuttosto che nell’altro, con un uso delle parole e delle immagini che deve tenere conto anche dei loro possibili effetti. Il tutto va inscritto in un orizzonte di senso, in una direzione, in uno scopo, in una finalità che credo debba essere semplicemente migliorare la qualità della vita e la coesione sociale.
M:Il Covid ci ha mostrato come i media possono essere un potente rimedio a una situazione di crisi come quella che stiamo vivendo. Lo sono stati per le Istituzioni, in quanto hanno rappresentato un canale attraverso cui dialogare con i cittadini e spiegare loro le ragioni dei comportamenti che si chiedeva di assumere e/o cui si chiedeva di astenersi. Ma lo sono stati anche per tutti noi, in quanto ci hanno offerto le cornici interpretative entro cui contestualizzare le tante notizie sulla pandemia, così come spazi di socializzazione tali da consentire al distanziamento fisico imposto dal virus di non diventare isolamento sociale.
Il ruolo delle istituzioni politiche e religiose
V:Un ruolo importante, sia nella chiave della guida che per tenere insieme il Paese. Nel libro si prendono in esame tanti aspetti legati alle sfide dei media al tempo del Covid-19, da quelli legati al racconto giornalistico della crisi, ai social, a quelli più strettamente connessi all’uso dei media come veicoli di comunicazione istituzionale e politica. Ce ne siamo occupate proponendo, oltre che alcuni saggi specifici sul ruolo delle istituzioni e della Chiesa, anche alcune interviste a quirinalisti, vaticanisti e chigisti che aiutano ad entrare inmedias res. Le figure più significative. A parte il Presidente del Consiglio e i membri del governo che hanno dovuto prendere – e comunicare- una serie di decisioni impopolari, credo che rimarrà tra i simboli di questo periodo storicol’ immaginedi Papa Francesco che sale solo verso il sagrato di piazza San Pietro la sera del 27 marzo per impartire la benedizione urbi et orbi sotto la pioggia, dopo aver ricordato che siamo tutti sulla stessa barca, e nessuno si salva da solo. Ma con lui e dietro di lui la Chiesa italiana, dai suoi vertici ai singoli sacerdoti e suore che non si sono mai tirati indietro nella vicinanza, nella sofferenza, al popolo italiano. Il Presidente Mattarella, dal canto suo, è stato un riferimento costante nel richiamare al senso della responsabilità, della comunità, ma anche della solidarietà in un momento così difficile della nostra storia.
I cambiamenti in corso sono destinati a incidere tanto su contenuti, modalità e assetti della comunicazione, quanto sui futuri equilibri sociali, politici, economici del vivere comune.
M:Le Istituzioni hanno avuto un ruolo centrale in questa crisi, per loro stessa natura ma anche per il valore simbolico dei messaggi che ci hanno veicolato. Penso ovviamente anch’io alla potenza dell’immagine del Papa, solo in una piazza san Pietro deserta e battuta dalla pioggia, simbolo di una società apparentemente senza difese dinanzi al virus, ma altrettanto desiderosa di reagire fronteggiando la paura.
Quali studiosi hanno contribuito alla realizzazione del libro?
V:Studiosi di diverse discipline, dalle scienze delle comunicazioni, alla sociologia, alla linguistica, alla storia, insieme a giornalisti, professionisti impegnati nella comunicazione istituzionale o anche in ambito medico scientifico. Credo che la ricchezza del volume nasca proprio dalla comunità di scrittori che sono stati coinvolti nel progetto, di cui fanno parte anche una decina di giovani che hanno realizzato le interviste.
M:Questo libro ha il dono di annullare le tradizionali distanze tra accademici e professionisti, così come quelle tra giovani e anziani e tra Nord e S
- Il lettore troverà all’interno contributi diversi per provenienza geografica (con 11 atenei italiani coinvolti) così come per medium (dai mainstream media a quelli digitali), e con un occhio attento alle giovani generazioni, cui abbiamo affidato la sezione conclusiva del libro, intitolata Detecting, che idealmente chiude un viaggio iniziato con un tentativo di Framing, e proseguito di sezione in sezione analizzando il MediaVirus rispetto a 5 diverse keyword (Covering, Reporting, Advertising, Socializing, Prosuming) e in una perfetta contaminazione tra università e professione.
Sono previste presentazioni online?
Sì, a partire dal 2021, ma secondo un calendario che non è ancora definito. Il volume è una miniera di spunti. Sul sito Ucsi.it ne riprenderemo uno ogni domenica, ma poi l’intenzione è proprio di mettere a fuoco una serie di presentazioni e dibattiti on line per giornalisti ma non solo.