di Pierfrancesco Malu
Dagli anni 2010 in poi, l’UE, ma sarebbe più corretto dire da quando è naufragato l’ambiziosissimo progetto di Costituzione Europea – simbolicamente firmato a Roma così come i trattati costitutivi CEE del 1957 e solo parzialmente ripreso dal trattato di Lisbona del 2009 – qualcosa sembra essersi rotto nel progetto di integrazione europeo. Il primo colpo è stato assestato dalla crisi economica del 2008 e dal sostanziale smembramento degli asset della Grecia; il secondo, oggi dalla crisi sanitaria (che è anche economica) del Coronavirus che ci mostra non solo tutti i limiti ma anche le crepe tra gli stati che si fanno più profonde ogni giorno che passa.
Lo scontro di cui stiamo assistendo in queste settimane tra i paesi del Nord e quelli mediterranei, con la Francia un po’ a metà tra i due schieramenti, è sicuramente politico ma denuncia anche tutti i limiti costitutivo-procedurali che negli anni hanno caratterizzato l’Europa limitandone fortemente il processo di integrazione. Per adottare una decisione su una materia come quella dei “coronabond”, infatti, il Consiglio Europeo ha necessità di decidere all’unanimità. Ciò implica dare a ciascuno dei suoi componenti uno straordinario potere di veto su questa e su tutte le principali iniziative in materia economica, fiscale e di politica estera. La conseguenza è che un gruppo di paesi che rappresenta una minoranza come numero di cittadini e peso economico è in grado di frenare un’iniziativa auspicata dalla maggioranza. Per prima cosa, sarebbe quindi necessaria una riforma profonda dei trattati proprio per rimodulare quegli aspetti che impediscono l’adozione di scelte coraggiose anche quando non condivise da tutti i membri e allargando il principio della “cooperazione rafforzata” ad altri contesti.
La crisi dell’Europa, quindi, viene da lontano e il germe dell’insuccesso, della diffidenza reciproca e della mancanza di solidarietà sta già all’interno dei trattati ed emerge proprio nei momenti più critici. Ci eravamo illusi che il problema dell’UE fosse l’Inghilterra e che la Brexit avrebbe dato slancio ad un rinnovato spirito di unione e solidarietà comune. Il problema sta, invece, in chi l’Europa unita l’ha voluta più fortemente di altri e ha contribuito a redigerne gli atti. Allo stato attuale, ci riscopriamo più deboli e divisi che mai, tanto da doverci domandare se l’Unione Europea abbia ancora ragione d’essere. Detto questo, l’Italia non può riscoprirsi europeista solo nel momento del bisogno e nel resto del tempo sperperare i fondi strutturali da un lato e non procedere ad un serio risanamento dei conti pubblici dall’altro. Siamo noi con le nostre politiche – o mancate tali – che esponiamo continuamente il fianco alle critiche e non possiamo del tutto lamentarci se i paesi formica vedono in noi la cicala che scopre solo in inverno di non aver lavorato abbastanza. Quando giustamente critichiamo la Germania, dobbiamo però anche ricordarci che, a seguito delle difficoltà economiche dovute alla riunificazione, a cavallo tra la fine del Novecento e l’inizio degli anni Duemila, i tedeschi chiesero ed ottennero – in particolare da noi italiani – grande flessibilità e procedettero con un doloroso quanto efficace piano di risanamento e poi di investimenti mirati che gli ha consentito di rilanciare con forza l’intera economia del Paese. Il tutto mentre noi ci tenevamo adeguatamente lontani dal fare altrettanto e finanziavamo “rigorosamente” in deficit ogni iniziativa pubblica.
Viviamo oggi, tuttavia, il momento più critico della storia comunitaria recente. Se cediamo oggi, tutto il popolo europeo che, se non ce ne fossimo ancora accorti, è tutto sulla stessa barca, rimpiangerà per sempre quanto sta avvenendo e il sogno di Spinelli, Adenauer, Delors e De Gasperi andrà definitivamente in frantumi.
Oggi, in ballo non c’è solamente la stabilità economica di questo o di quel Paese specifico, stiamo lottando per il mantenimento della pace, della solidarietà e dell’idea stessa che ci ha assicurato prosperità per oltre settanta anni. Se cediamo all’egoismo, il pericolo è il ritorno a quei nazionalismi che ci hanno condotto alla rovina e che, oggi, nel migliore dei casi, sono destinati a condurre l’intera UE e i suoi paesi all’oblio.