di Paolo Ravasi
L’epidemia di Covid-19 sta portando alla ribalta un aspetto dell’utilizzo del denaro contante che, fino ad ora, non era stato particolarmente evidenziato e preso in considerazione, se non in ambito scientifico, suscitando al massimo qualche commento incuriosito sugli organi di informazione. Mi riferisco alla possibilità che le banconote possano essere veicolo di contagio, sia per la frequenza dei passaggi di mano tra diversi individui, che per la intrinseca capacità di catturare virus e batteri collegata alla composizione dei materiali di cui sono fatte.
A lanciare l’allarme, una settimana fa, è stato un non meglio identificato rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) intervistato da The Telegraph, anche se già nei giorni precedenti si era avuta notizia di provvedimenti dei governi cinese e coreano che impongono alle banche di sottoporre le banconote in deposito a trattamenti disinfettanti a base di raggi ultravioletti, calore e quarantena prima della loro reimmissione nel sistema economico, come misura di prevenzione alla diffusione del virus.
D’altra parte, già da alcuni anni circolano i dati di studi come quello condotto dalla New York University e chiamato “Dirty Money”, che nel 2014 ha mostrato come su un banconota possano essere presenti circa 3.000 tipi di batteri diversi, la maggior parte innocui o blandamente dannosi, come ad esempio quelli legati all’acne, ma in misura minore anche collegati a patologie più pericolose come polmoniti e gastroenteriti, oltre che resistenti ai comuni antibiotici. Oppure come lo studio della Radboud Universitiet di Nijmegen in Olanda, che ha analizzato la differente propensione delle banconote di diversi paesi ad essere veicolo di trasmissione di batteri, e che nel 2013 è stato insignito del Premio IG Nobel che, a dispetto del nome (un gioco di parole tra Nobel e l’aggettivo “ignobile”), è un premio scientifico autorevole, assegnato ogni anno a dieci ricercatori autori di indagini su temi inusuali o curiosi, ritenuti però degni di un’analisi scientifica seria.
Tra i vari tipi di banconote, sono quelle prodotte con carta derivante da fibre di cotone ad avere la maggiore concentrazione di batteri sulla propria superficie. Sono le banconote più diffuse a livello globale, essendo la carta il materiale di produzione di dollaro, euro, rublo, rupia e yuan. Invece le meno diffuse banconote in polimero, di cui l’Australia è stato l’emittente pioniere nel 1988, oltre ai vantaggi in termini di durata e maggiore difficoltà di contraffazione, offrono una grande resistenza all’umidità con un conseguente livello di igiene più elevato, come ha sottolineato recentemente la Bank of England per tranquillizzare i cittadini britannici. Il Regno Unito ha infatti introdotto le banconote polimeriche a partire dal 2016, tra l’altro prodotte con una rotativa fornita da un’azienda italiana di Casale Monferrato, ed oggi rappresentano la maggioranza delle sterline nelle tasche dei sudditi di Sua Maestà.
In questi giorni in cui il livello di allarme per la diffusione del virus sta spingendo tutti a dedicare una maggiore attenzione all’igiene delle mani, come peraltro caldamente suggerito dalle campagne informative del Ministero della Salute, il tema del rischio di contagio legato al maneggio di denaro contante è diventato un trending topic, come è facile verificare digitando su un motore di ricerca le parole “banconote” e “virus”. E se tra i trending topic troviamo l’affermazione del già citato rappresentante dell’OMS, secondo il quale “per prevenire la diffusione del contagio, la gente dovrebbe usare, ovunque sia possibile, i pagamenti contactless”, sarà dunque la paura del Coronavirus ad imprimere quella svolta alle abitudini dei consumatori e dei negozianti italiani in direzione dei pagamenti elettronici, che tante altre iniziative legislative, tecnologiche, di marketing, di comunicazione non sono riuscite ancora ad indirizzare, perlomeno non nella misura auspicata? Ai POS(teri) l’ardua sentenza.