di Maurizio Pimpinella
Nella sua simmetrica palindromicità, il 2020 è stato un anno di cesura e transizione per vari motivi. È stato, ad esempio, l’anno della svolta per il digitale, vero e proprio strumento di supporto all’economia pandemica; è stato l’anno della consacrazione dei pagamenti elettronici, finalmente riconosciuti anche come industria strategica e protagonisti della resilienza e della ripresa, ed è stato anche l’anno dello smart working.
Nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria, 6,58 milioni di lavoratori italiani erano connessi da casa, circa un terzo dei lavoratori complessivi per una cifra superiore di dieci volte rispetto al 2019. A settembre 2021, dopo una fase di assestamento e un parziale ritorno alla normalità, i lavoratori in smart working sono comunque 5,35 milioni, suddivisi soprattutto tra grandi imprese e pubbliche amministrazioni.
Eppure, proprio nella pubblica amministrazione guidata dal Ministro Renato Brunetta si potrebbe assistere ad una controriforma, col rientro di milioni di lavoratori in presenza in virtù dell’utilizzo obbligatorio del green pass, lasciando allo smart working una fetta massima del 15%.
Mentre nella PA e in alcune altre imprese lo smart working (che certamente non è da intendersi come il modello di lavoro da remoto che abbiamo conosciuto fino ad ora) sembrerebbe essere vicino al canto del cigno, in virtù di una supposta caduta di produttività ed efficienza, il vero lavoro intelligente potrebbe anzi affermarsi attraverso un modello ibrido ed elastico.
Anche secondo McKinsey il futuro del lavoro non sarà necessariamente remote first ma i cambiamenti condotti in questi mesi diventeranno persistenti nelle economie avanzate.
Lo smart working non potrà più essere impostato come è stato fatto sino ad oggi, tuttavia una componente significativa dei lavoratori non è più disposta a tornare indietro. Stessa cosa dicasi di molti manager che in numerosi casi hanno visto aumentare la produttività e diminuire i costi di gestione.
A questo proposito, il World Economic Forum ha calcolato che negli Usa, il ricorso massiccio allo smart-working ha portato ad un incremento della produttività del lavoro pari al 4,6%. Il sistema di lavoro ibrido implicherà l’adozione di nuove norme, di compiti ricalibrati in base alle reali esigenze e di un ripensamento degli spazi di lavoro in presenza.
Inoltre, l’approccio ibrido consentirebbe anche di evitare la sostanziale alienazione dei lavoratori costretti per ore davanti ad uno schermo senza reali interazioni con i colleghi che rimangono essenziali per evitare il sopravvento dell’individualismo, dello scollamento dalla realtà e anche per creare uno comune spirito di squadra che altrimenti sarebbe estremamente allentato.
A proposito poi di norme, per quanto riguarda l’Italia si dovrà prima di tutto procedere ad un cambio culturale che la pandemia ha solamente scalfito. Siamo un Paese abituato a timbrare il cartellino, a fare dell’over working (spesso improduttivo) un valore e potremmo sicuramente avere dei problemi a passare ad una tipologia di lavoro orientata al conseguimento di obiettivi. Anzi, abbracciare questo nuovo approccio al lavoro implica anche responsabilizzare maggiormente il lavoratore, non più costretto ad occupare un posto per semplice rispetto del dovere ma chiamato a rendere conto dei vari stati di avanzamento della propria attività.
Il principio di fondo che regola il cambiamento di approccio al lavoro in futuro dovrà essere quello del bilanciamento tra carriera e vita privata, in cui si lavora magari meno ma meglio ottimizzando tempi e risorse. Per garantire tale equilibrio, sarà fondamentale mantenere sempre presenti tre indicatori fondamentali: il diritto alla disconnessione, la retribuzione, il benessere sul lavoro.
Per quanto riguarda il diritto alla disconnessione, già a gennaio del 2021 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione per sensibilizzare sul tema e contribuire a superare quella che è stata definita “la cultura del sempre connesso”.
In Italia, la legge 81/2017 sostiene che la definizione del tempo libero sia frutto del contratto, tuttavia la norma evita di indicare una reale cornice legislativa ascrivibile a tutti i lavoratori. Nel nostro ordinamento, il diritto alla disconnessione è presente ma la sua reale codificazione è ancora molto lontana, ciò che ne impedisce una reale applicazione, lasciando invece spazio agli accordi singoli con tutto quello che possono implicare.
Il secondo indicatore, dicevamo, riguarda la retribuzione. A partire dalla decisione di alcune big tech come Google e Facebook di ridurre lo stipendio degli smart workers tarandolo sul costo della vita del luogo da cui lavorano, anche in Italia si è aperto il dibattito a riguardo. Da noi, sono state fatte addirittura delle approssimative proiezioni di tale modello stabilendo che uno stipendio annuo di 35 mila euro a Milano equivale ad uno di poco più di 20 mila a Palermo.
Una tale forma di ragionamento, in realtà, svilisce sostanzialmente il lavoro e lo priva della sua dignità e del valore intrinseco suo e della persona che lo svolge, sfociando in una paternalistica delocalizzazione digitale. È un po’ come un’impresa di abbigliamento trasferisse la produzione nel Sudest asiatico perché lì la vita costa meno e gli stipendi sono più bassi che in Occidente.
Peccato che questo genere di considerazione, seppur in parte legittima nei casi in cui si cambia completamente tipo mercato, sia del tutto assurda da applicare differenziando la qualità del lavoro svolto in questa o in quella località dello stesso Stato in cui si pagano però uguali tasse sul lavoro. Volendo quindi fare una provocazione (che però è tale solo in parte) si potrebbe rilanciare nel seguente modo.
Siccome il lavoratore da remoto si fa carico di tutte le utenze quali luce, internet, telefono, affitto eccetera, anziché vedersi decurtato lo stipendio dall’azienda, quest’ultima potrebbe anzi contribuire in parte al pagamento delle utenze stesse che vengono utilizzare per svolgere attività lavorativa.
Il terzo indicatore, ovvero il benessere generale sul lavoro, è la diretta conseguenza dei primi due e riguarda in particolare il bilanciamento delle condizioni generali in cui l’attività è svolta. Maggiore è l’equilibrio e migliore sarà l’indicatore.
Allargando l’orizzonte con un ultima considerazione, considerato che secondo McKinsey in futuro tra il 20 e il 25 per cento dei lavoratori globali opererà da remoto, lo smart working potrà diventare un ulteriore vettore della globalizzazione, allargando la ricerca di personale ai più promettenti talenti su scala globale.
In definitiva, come tutte le rivoluzioni tecniche e sociali che agiscono con dirompenza sia per fattori esogeni che per fattori endogeni, anche lo smart working è destinato a ricoprire un ruolo importante in tutto il mondo, contrastarlo ciecamente significherebbe solamente tarpare le ali allo sviluppo innovativo del mondo del lavoro, cercando anzi di nascondere alcune delle carenze in termini di sicurezza, competenze ed infrastrutture di cui soffriamo e che, invece, devono essere affrontate con urgenza e pragmatismo.