di Maurizio Pimpinella
Nella storia, soprattutto moderna e contemporanea, il mondo del lavoro è stato sempre condizionato dalle innovazioni tecniche e questo ha poi influito anche sullo sviluppo economico, sociale e urbanistico della nostra società. L’esempio classico, anche per portata e dirompenza, è quello della rivoluzione industriale inglese avvenuta alla fine del XVIII Secolo e poi estesasi al resto del continente, a causa della quale si passò infatti da una società prettamente agricola ad una sistema industriale moderno.
Ciò vide un notevole afflusso di persone dalla campagna verso i centri cittadini che mano a mano si stavano trasformando in moderne metropoli. I cambiamenti portati dalle scoperte tecniche dell’epoca hanno portato ad un totale ripensamento della vita e del lavoro tanto da incidere anche sull’intimo dell’immaginario collettivo contemporaneo e posteriore.
Ebbene, proprio come allora, anche oggi stiamo vivendo l’ennesima rivoluzione in ambito tecnico (che segue appunto quella industriale, quella energetica e quella di internet) e questa condiziona in vari aspetti tanto le nostre attività lavorative quanto le vite stesse portandoci vantaggi e nuove opportunità ma costringendoci anche ad essere connessi senza soluzione di continuità, con evidenti limiti sia dal punto di vista della qualità della via sia dell’efficienza stessa del lavoro.
In Italia, il tema è divenuto di particolare attualità soprattutto a seguito dell’esperienza di lavoro a casa maturata a partire dalla scorsa primavera. La pandemia ha imposto, infatti, un nuovo modello di lavoro, definito smart, ma che di “intelligente” ha decisamente poco. Abbiamo, anzi trasposto in questa “nuova” modalità tutte le vecchie, e spesso cattive, abitudini che caratterizzano il modello di lavoro in sede finendo spesso in una condizione cronica di overworking o di burnout. Quanto avvenuto ha portato ad interrogarsi sulla necessità dei nuovi lavoratori digitali e smart di “disconnettersi” dalla vita lavorativa e dagli strumenti ad essa collegata.
Tali preoccupazioni, in realtà, in Italia sembrano purtroppo essere quasi superflue nonostante la pandemia, in quanto secondo i più recenti dati raccolti da Eurostat, solo il 12,2% dei lavoratori italiani beneficia abitualmente dello smart working, appena al di sotto della media UE e ben distaccata dalla capofila Finlandia che registra un dato del 25,1%.
Facendo poi riferimento alla giurisprudenza corrente, in Italia, il diritto alla disconnessione è sancito da una norma contenuta nella legge 61/2021, precisamente all’articolo 2 comma 1-ter in cui “è riconosciuto al lavoratore che svolge l’attività in modalità agile il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati.
L’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di risposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”. Tale norma suona un po’ come quanto previsto dalla legge 81/2017 sullo smart working in cui il ruolo regolativo è affidato al contratto individuale, basandosi quindi sul consenso tra le parti. Su questo tema si è andati oltre per quanto riguarda lo smart working semplificato – ora in fase di proroga fino al 31 dicembre – che può essere attivato unilateralmente da parte delle imprese, senza cioè che vi nemmeno vi sia un precedente accordo tra le parti.
Allo stesso modo, anche il Parlamento UE ha adottato una risoluzione lo scorso gennaio con la quale impegna la Commissione ad adottare una direttiva in grado regolare il contesto. È evidente, però, che soprattutto la normativa italiana sia “viziata” da una sorta di peccato originale, ovvero il presupposto che il tutto sia soggetto ad accordi tra le parti, o a decisioni unilaterali, in cui una di queste possiede inevitabilmente un potere contrattuale superiore rispetto all’altra condizionandone l’esito della trattativa. Sarebbe, invece, più opportuno che si andasse oltre una normativa quadro che sancisce il diritto e questo fosse applicato attivamente in forma standard (ove possibile) ai contratti a prescindere dal semplice rapporto biunivoco tra i due contraenti.
In futuro, la modalità di smart working ( che in ogni caso rappresenta una fattispecie più ampia di semplice lavoro agile), dovrebbe diventare normale e molto più diffusa di quanto non lo sia ad oggi. E persino l’Italia dovrebbe essere coinvolta maggiormente in questo fenomeno visto per lo più ancora con una certa dose di sospetto. Proprio in vista di questa evoluzione, è importante che una volta tanto consuetudini e normativa si adeguino di conseguenza.
Nel campo del digitale, ad esempio, abbiamo spesso assistito ai casi di una legislazione sostanzialmente impreparata ad assecondare i cambiamenti, salvo poi rincorrere con scarso tempismo e produrre ben pochi effetti positivi. Il mondo però, oggi va molto più velocemente rispetto a 200 anni fa, e gli stessi cambiamenti sono più profondi rispetto al passato. Un motivo in più per evitare che un tale ritardo crei anche rilevanti disuguaglianze sociali che potrebbero poi finire con sfilacciarne il tessuto e accrescere la conflittualità tra i lavoratori dei diversi settori, tra quelli considerati avvantaggiati e quelli che si considerano sfavoriti, in quella che poi finirebbe per essere l’ennesima “guerra tra poveri” che non solo non giova realmente a nessuno ma che produce anzi gravi effetti in termini di inclusione e competitività del sistema economico e produttivo.