di Maurizio Pimpinella
Da grandi, i nostri figli faranno un lavoro che ancora non esiste ma non sarà per colpa della trasformazione digitale. Impariamo a gestire il cambiamento con intelligenza, premiando merito, competenza ed ambizioni
“Cosa vuoi fare da grande?” Era la classica domanda che da bambini, quando frequentavamo le scuole elementari o le medie, ma anche poi dopo alle superiori, ci veniva spesso rivolta. In effetti, poche come questa domanda erano in grado di stuzzicare le ambizioni e i sogni di ciascuno di noi tanto che le risposte potevano essere le più disparate.
C’era, infatti, chi voleva imitare il lavoro del proprio padre, magari semplice operaio o artigiano, chi ambiva a diventare medico o veterinario, chi giornalista o avvocato chi, invece, ambiva a diventare calciatore, attore o ballerina. Poi vi erano quelli che, ancora più ambiziosi o forse solo più sognatori, volevano fare gli astronauti, gli scienziati o fare scoperte che avrebbero dato nuove prospettive alla storia della nostra civiltà.
Poi, si sa, i casi della vita così come le nostre stesse inclinazioni e preferenze ci portano a percorrere spesso strade diverse, per cui ciò che siamo diventati è molto diverso da quello che in realtà avevamo immaginato da bambini, e non necessariamente in peggio.
Oggi, però, è probabile che uno studente delle elementari non sia in grado di rispondere alla domanda con cui ho esordito perché, come evidenziato da una ricerca recente del World Economic Forum, il 65% dei bambini che attualmente frequenta le scuole elementari da grande farà un lavoro che ancora non esiste.
Avreste mai immaginato 10 anni fa la diffusione del lavoro di youtuber e di content creator? Oppure dell’esistenza dei web influencer o dei data scientist? Ovviamente, no, e questo perché la tecnologia corre veloce, molto più veloce anche dell’istruzione e delle norme: la digital transformation, una serie di cambiamenti tecnologici ma anche culturali nel mondo in cui viviamo, può rappresentare un’opportunità non solo per le aziende che ne colgono i vantaggi, ma anche per chi vuole costruirsi una carriera o per chi vuole ricollocarsi.
Per riuscirci, però, è necessario anche abbandonare le vecchie convinzioni e le sovrastrutture culturali, quelle che in un webinar che ho moderato nei giorni scorsi la Country Manager Amazon di Italia e Spagna di Amazon Mariangela Marseglia ha definito “ideologismi”, e pensare in un modo nuovo ed orientato al futuro, ciò che probabilmente buona parte dei nativi digitali stanno già facendo in maniera del tutto naturale.
Tra questi ideologismi, ad esempio, rientra la convinzione che robot, automazione ed intelligenza artificiale “rubino il lavoro” agli operatori umani. L’idea diffusa è quindi che la trasformazione digitale nel suo insieme riduca lo spazio e le possibilità di lavoro per le persone, con l’evidente effetto di produrre schiere di nuovi disoccupati. La realtà, invece, è che la trasformazione digitale ha contribuito a cambiare i lavori, il mondo e il mercato del lavoro, proprio come ha inciso su qualsiasi altro aspetto delle nostre vite, in modo, per la verità, simile a quanto è naturalmente successo nel corso dei decenni.
Da sempre, infatti, i lavori cambiano, si rinnovano o diventano obsoleti a causa del progresso tecnologico ma non per questo oggi il mercato del lavoro è composto solo da disoccupati. Anzi, un recente studio operato dai ricercatori dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), dell’Università di Trento e dell’Istituto di Statistica della Provincia di Trento (ISPAT) dimostra che, ad esempio nel campo della robotica e dell’automazione, tutte quelle figure professionali che, a diversi livelli, si occupano della programmazione, dell’installazione e della manutenzione dei robot, sono aumentate di circa il 50% in poco meno di dieci anni.
Se poi si pensa che tutto questo possa influire negativamente sullo svolgimento di mansioni routinarie ci sbagliamo. I risultati dell’indagine suggeriscono anzi che nelle zone a più intensa robotizzazione la quota di occupazioni routinarie di tipo cognitivo sia addirittura aumentata. Dobbiamo pensare al mercato del lavoro (almeno in un modello ideale cui aspirare) come ad un sistema di vasi comunicanti per cui gli occupati passano (proprio come i liquidi) da un contenitore all’altro in base alle nuove opportunità e competenze creando un nuovo equilibrio nell’ecosistema stesso.
L’aspetto su cui dobbiamo lavorare è piuttosto quello di evitare il rischio che si accentuino le diseguaglianze, la vulnerabilità e l’esclusione sociale delle persone, e la chiave sono: nuovi programmi di educazione, il ripensamento delle modalità di sostegno attivo al lavoro e un welfare state nuovo e non più ancorato ai canoni sociali e giuslavoristici della seconda metà del XX Secolo.
Ciò che dobbiamo fare ora è, invece, imparare a gestire con intelligenza, apertura mentale e competenza il cambiamento, incentivando la maturazione di competenze nuove, ramificate e diversificate che interagiscono tra loro in un mix di soft ed hard skills, premiando sempre di più il merito e l’intraprendenza.
La fine del lavoro per colpa dell’avvento delle macchine è ancora molto lontana e, in generale, ben poco plausibile. E’, purtroppo, più probabile che ciò avvenga per mancanza di competenze, capacità di adattamento e per la poca curiosità nei confronti dei sentieri meno battuti, ciò in cui risiede, invece, l’essenza stessa del genere umano.