di Maurizio Pimpinella
A discapito di una valutazione e di una risonanza in questa fase alternanti, le criptovalute continuano ad essere uno strumento di scambio più che ricorrente, soprattutto in certi ambienti poco trasparenti. Già ad inizio 2022, in contemporanea con l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina, avevo rilevato come tale evento avesse sostanzialmente sdoganato il ricorso alle valute digitali, utilizzate in quel caso per far giungere fondi di supporto agli ucraini. Questa volta, invece, secondo quanto riportato anche dal Wall Street Journal, le criptovalute sono state utilizzate, almeno dal 2022, per finanziare Hamas che in questi giorni ha realizzato uno straordinario attacco nei confronti di Israele. Le autorità locali sono state in grado di risalire ai portafogli digitali collegati ai jihadisti per un importo complessivo di oltre 93 milioni di dollari. La cosa tristemente singolare in questo caso è poi che circa 41 milioni destinati ad Hamas sono stati processati da una società con sede a Tel Aviv, esattamente dentro il centro politico e amministrativo israeliano. Questo fatto dimostra come non solo le criptovalute siano uno strumento di finanziamento in grado di passare inosservato (almeno nell’immediato) ma anche che il loro passaggio sia letteralmente possibile da qualsiasi posto nel mondo, persino nel caso di una transazione potenzialmente ad alto rischio.
È evidente quindi che, in presenza di impedimenti oggettivi che riguardano i normali circuiti bancari e finanziari ricorrere alle criptovalute rappresenti un’alternativa estremamente valida ed immediatamente spendibile, anche perché determinati prodotti non si acquistano né su Amazon né al supermercato e necessitano anzi di particolari accortezze logistiche.
Ancora una volta, tuttavia, questo vuole essere un “semplice” alert, un campanello d’allarme che suona senza l’intento di demonizzare questi strumenti ormai diffusissimi benchè il loro possesso sia sostanzialmente concentrato in mano a pochi soggetti. Posto che è di fatto impossibile (oltre che per certi versi controproducente) impedire completamente gli scambi di cripto, l’unica via è quella della regolamentazione normativa. In Europa siamo stati antesignani in tal senso e il Regolamento MICA (che entrerà definitivamente in vigore nel 2024) è ora una realtà di fatto; altrettanto non si può però dire di altre aree. Anzi, ciò che manca davvero (spesso per assenza di volontà) è l’interoperabilità dei controlli tra i paesi, la possibilità di avere una normativa standard valida per tutti in grado di comunicare e scambiare informazioni capaci almeno di intercettare i flussi illegali. Questo anche perché – come stiamo vedendo anche in questi giorni – le criptovalute sono innanzitutto un grande business per tanti che da esse traggono potere e ulteriore ricchezza, poi regolarmente convertita in dollari, euro o yuan e sostanzialmente riciclata.
È evidente che il mercato, per quanto ondivago, rappresenti un fiume che non può essere arrestato ma, proprio come i fiumi, c’è l’esigenza di creare canali che indirizzino e controllino i flussi affinchè seguano un percorso corretto. La questione, infatti, non è semplicemente quella di garantire o meno la privacy, bensì la segretezza degli investimenti, ciò che fa la differenza tra fare un acquisto lecito e un finanziamento illecito, proprio come avvenuto nei confronti di Hamas