di Maurizio Pimpinella
Con l’approssimarsi della stagione estiva tornano a farsi sentire non solo i tormentoni delle canzoni latinoamericane ma anche le polemiche tra imprenditori e lavoratori (e rispettive fazioni): i primi che dicono di non trovare lavoratori, e soprattutto di non trovarne di motivati, mentre i secondi denunciano condizioni lavorative tutt’altro che irrinunciabili, fatte più di vessazioni che di benefit.
Per la verità, tali polemiche sono un po’ il leit motiv degli ultimi anni, acuitisi più di recente con l’emergere da un lato del fenomeno del great resignation (dalla primavera del 2020 in poi) e dall’altro dei “fenomeni” tv e social che contribuiscono con le rispettive dichiarazioni ad alimentare un dibattito che non va quasi mai oltre la superficie.
Ed in effetti, tra gli stereotipi del ristoratore o del percettore di reddito di cittadinanza si inseriscono nel dibattito anche altri personaggi noti al grande pubblico com’è recentemente accaduto allo chef Alessandro Borghese, uno dei tanti che affermava che i giovani sostanzialmente hanno solo pretese e non vogliono più fare quella gavetta che consente di accumulare un necessario bagaglio di esperienze e competenze come lui a suo tempo fece. Apriti cielo a tali affermazioni. Non parliamo poi di quanto recentemente affermato dall’ormai ex immacolata guru della moda Elisabetta Franchi che in un’intervista dei giorni scorsi ha detto di preferire assumere o uomini o le donne “anta”, che cioè hanno già fatto tutti “i giri di boa” della loro vita personale e possono ora dedicarsi h24 a lei e al lavoro, come che le donne dopo i quaranta non hanno più nient’altro da dire.
Ebbene, ferma restando la condanna per delle esternazioni che sono sembrate in gran parte non solo fuori luogo ma anche del tutto anacronistiche, sarebbe anche necessario, come dicevo prima, andare un po’ oltre la superfice ammettendo, ad esempio, che su tale argomento gira molta ipocrisia e che la Franchi non ha fatto poi molto altro che esplicitare ciò che in tanti fanno fuori dai riflettori. Beninteso che “il così fan tutti” non vuole in alcun modo essere una giustificazione, quanto semmai un accento sulla denuncia di tali pratiche.
In Italia, purtroppo, manca ancora una corretta consapevolezza del ruolo della donna nella società e di quelli che sono – così come per chiunque altro – i suoi diritti e i suoi doveri in un rapporto di lavoro. Tuttavia, non si può banalizzare così come è stato fatto in questo e in molti altri casi un tema complesso che andrebbe semmai analizzato in profondità, quasi caso per caso, cercando di produrre una sorta di regola aurea di comportamento.
Il problema (perché di problema si tratta) è sistemico e pertanto va affrontato da entrambi i punti di vista e con l’attenta supervisione delle responsabilità di uno Stato che spesso non offre ad entrambi le necessarie tutele. Da un lato vi è ancora l’annosa questione del costo del lavoro dipendente che riducono notevolmente i margini di manovra di chi (pur volenteroso) vorrebbe persino investire nel capitale umano; dall’altro vi sono gli scarsi controlli e i pochi strumenti a disposizione di chi vorrebbe rivalersi nei confronti delle ingiustizie. A margine di questi, vi sono poi le continue discriminazioni di genere ed età – per dirne solo due – che si traducono in un pay gap ingiusto ed odioso. Temi accesi che rimangono però ancora del tutto sospesi nell’incapacità di essere affrontati con la giusta attenzione.
Se però, tra i tanti, una colpa si può veramente imputare agli imprenditori – come nel caso della Franchi – è quella di aver peccato di scarsa programmazione, perché la gravidanza, così come anche una malattia di un dipendente (con le dovute proporzioni) non possono essere considerate solo degli eventi eccezionali: nei limiti del possibile è necessario dotarsi di una struttura umana di backup tale da poter sopperire alle assenze, anche prolungate. Non è, infatti, concepibile – oltre che controproducente – pensare di affidare processi e rapporti anche complessi ad una sola persona, nell’interesse stesso dell’impresa, che potrebbe doversi assentare non per capriccio ma per motivi indipendenti dalla sua volontà.
A chiosa di quanto detto finora, mi piace parafrasare la lettera che Simone Terreni (l’imprenditore che tempo fa assunse la ragazza che aveva “confessato” di essere incinta) ha dedicato all’evento. È necessario che in un’impresa ci si doti di una struttura in grado di sopperire alle assenze con compiti e responsabilità ben distribuiti, anche perché una gravidanza “non può mai essere un problema” ma anzi un valore per l’intera società di cui l’imprenditore, attraverso il sostegno economico e di welfare, che offre alla coppia dovrebbe andare orgoglioso.