di Maurizio Pimpinella
Ci sono storie che non finiscono mai, a volte cambiano, si evolvono ma, sostanzialmente, rimangono per lo più uguali a loro stesse. È questo, ad esempio, il caso del colonialismo in Africa. Un continente che, in un modo o nell’altro, fatica a trovare una vera indipendenza politica ed economica a causa dei continui sconfinamenti – spesso persino dietro esplicito invito – da Occidente prima e da Oriente poi. I francesi hanno a lungo mantenuto il controllo monetario grazie al complesso e talvolta pernicioso sistema del Franco CFA, prima ancorato al Franco francese e poi all’euro, che aveva sostanzialmente l’unico obiettivo di mantenere il predominio dell’economia monetaria e produttiva transalpina sulle ex colonie, in alcuni periodi facendo tra l’altro parte di un articolato sistema protezionistico per i prodotti della madrepatria.
A seguito poi del lungo processo di decolonizzazione e di smembramento degli imperi avviato all’indomani della Seconda guerra mondiale, ad oggi, la Francia è di fatto l’unica antica potenza coloniale a mantenere voce in capitolo sulle economie e le monete di diversi paesi africani (forse anche in virtù del metodo coloniale improntato sulla stretta e diretta amministrazione dei territori controllati: la direct rule), ma tra criptovalute e cinesi questo predominio potrebbe presto avere fine.
La Cina, in Africa è ormai un attore regionale di primaria importanza, anzi, per certi aspetti potremmo anche dire che il suo predominio economico sul continente è di fatto assoluto. Questa ha finora investito in 52 paesi africani su 54, tra cui Sud Africa, Repubblica Democratica del Congo, Angola, Zambia, Etiopia, Nigeria e Ghana. Inoltre, il commercio bilaterale totale tra il continente africano e la Cina, nel 2021, ha raggiunto i 254,3 miliardi di dollari, in crescita del 35,3% su base annua. Dal canto suo, l’Africa ha esportato 105,9 miliardi di dollari di merci in Cina, un valore in crescita del 43,7% l’anno: mentre le banche di sviluppo cinesi hanno prestato più del doppiorispetto a quelle di Stati Uniti, Germania, Giappone e Francia messe insieme.
Tali prestiti non sono però frutto di un afflato di beneficienza del Paese asiatico ma sono orientati ad estendere il controllo economico, diretto ed indiretto, su infrastrutture, imprese e intere filiere produttive, ad iniziare da quelle delle materie prime relative alle terre rare e ai minerali semi conduttori che, in caso di mancato rispetto degli accordi (spesso capestro e segreti) passano direttamente sotto il controllo cinese: come già accaduto in Zambia, Kenya, Gibuti, Uganda, Congo e Sri Lanka.
In un tale scenario, il ruolo europeo – anche a causa del suo passato – è sempre più marginale nel continente e alla rilevanza dell’euro si stanno sostituendo come valute di Stato sia i bitcoin (come recentemente accaduto nella Repubblica Centrafricana) sia le CBDC (come il caso dell’e-Naira nigeriana o di altri progetti in corso). È quindi evidente che il legame tra i paesi africani l’euro e il Franco CFA– e quindi con le economie europee – sia percepito da un lato come un retaggio di un tempo passato e non sempre piacevole e dall’altro come un freno ai rapporti economici e politici extra europei, in questo caso con i cinesi, che, come detto, sono un partner sempre più presente nell’area.
Per ora, la nuova moneta (ancora di stampo sostanzialmente coloniale) l’eco dovrebbe rimanere ancorata all’euro ma è evidente che il dibattito a riguardo sia ancora del tutto aperto. A questo proposito, è sufficiente notare l’allineamento a Cina e India riguardo la risoluzione di condanna alla Russia in seno all’ONU di circa metà delle economie africane cui proprio la Cina garantisce finanziamenti e in cui intende accrescere la propria influenza.
Tra l’altro, il processo di digitalizzazione delle economie e dei pagamenti che sta investendo corposamente l’Africa in questi anni favorisce l’espansione nell’area degli strumenti finanziari e di pagamento digitalizzati. Potrebbe essere questo il “terreno di caccia” per il Renmimbi digitale cinese che, sostituendosi alle monete e alle economie occidentali, potrebbe stabilire un ancora più stretto controllo di stampo neo colonialistico specialmente su quei paesi in cui la presenza economica e politica cinese è già radicata. L’ambizione, tutt’altro che pronunciata sottovoce, dai cinesi è quindi proprio quella di ancorare il nuovo eco allo yuan soppiantando le economie occidentali.
Pur facendo pace col “nostro” (soprattutto quello francese) passato coloniale, lasciare alla Cina, che nel tempo è stata abile a giocare questo ruolo di attore primario nel continente africano sarebbe un peccato mortale che non fa altro che ridurre ulteriormente la rilevanza dell’area euro in un contesto geografico e politico in cui potremmo – l’Italia prima degli altri – essere veramente protagonisti.
Anche a questo potrebbe servire l’euro digitale che però non solo sconta un notevole ritardo nei confronti della moneta cinese ma dovrebbe anche essere supportato da iniziative politiche economiche concrete, omogenee e coordinate da parte dell’UE che, anche al suo interno, dovrebbe superare i dissidi che in questa fase di unione a sostegno dell’Ucraina sono solo sopiti.