di Maurizio Pimpinella
Pur non essendo un Paese dell’Europa del Nord, tradizionalmente molto propensi verso un welfare pubblico particolarmente esteso, il nostro non è da meno, soprattutto in relazione alla percentuale del PIL destinato a questa voce di spesa, all’incirca il 20% della nostra ricchezza.
La crisi COVID-19 ha poi indotto un incremento generalizzato di tutta la spesa in welfare, includendo i 3 pilastri “tradizionali” (Sanità, Politiche Sociali, Previdenza) e l’Istruzione, la stima 2021 è stata di 632 miliardi di euro, con una crescita di circa 6 miliardi di euro rispetto al 2020, anno in cui l’incremento era stato pari a 50 miliardi di euro rispetto al 2019. Nonostante ciò, è lecito affermare che la pandemia ha messo a nudo la debolezza di molti aspetti del nostro stato sociale: nella tutela della salute, nella promozione dell’istruzione pubblica, nell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria, offrendo però la possibilità di individuare gli aspetti in cui intervenire, soprattutto grazie al supporto del digitale. La combinazione tra digitale e sociale, infatti, non è più un auspicio ma una condizione abilitante che può favorire un approccio più efficace all’intero sistema per quanto riguarda lo Stato, le imprese e, soprattutto, i cittadini.
In linea di massima, obiettivo della spesa in welfare di uno Stato dovrebbe essere quello di favorire l’equità tra i cittadini e la loro inclusione sociale, ciò che, se dovutamente proporzionato e indirizzato, rappresenta un vero e proprio investimento in competitività. Osservando l’Italia di oggi, però, è evidente che non sempre sia stato possibile, nonostante l’enorme spesa profusa, incidere in tal senso.
Il problema non è dunque la dimensione quantitativa dello stato sociale, ma la sua aderenza ai bisogni dell’economia e della società odierne e future, e in qualche modo riguarda anche la sostenibilità della società stessa. Tutti aspetti in cui il digitale può incidere particolarmente, in quanto insieme di strumenti tecnologici tesi ad aumentare l’efficacia dei servizi, soprattutto se utilizzati come conseguenza di un più stretto rapporto di contaminazione tra settore pubblico, settore privato e terzo settore.
È dunque necessario che tutti gli attori del welfare – Pubblico, Privato e Nonprofit- investano massicciamente nel capitale umano e nella conoscenza, ciò che favorisce direttamente e indirettamente anche ad un processo di inclusione sociale che, per soggetti pubblici e soggetti privati dovrebbe essere come una sorta di stella polare che guida le iniziative. Al momento, la comunione tra digitale e welfare patisce ancora gravi ritardi, frutto anche dell’idea che questi due contesti siano difficilmente assimilabili. È necessario, anzi, sovvertire questo punto di vista sposando la tesi secondo cui il digitale è uno strumento attivo di welfare che contribuisce a ridurre le differenze anche in virtù di una maggiore distribuzione delle competenze in tale settore. Proprio per questo, è necessario promuovere la costruzione di percorsi che facciano convergere prospettive e competenze diverse fin dalla fase di progettazione del ruolo delle innovazioni digitali nei servizi. Avere meno competenze digitali significa, infatti, avere meno opportunità lavorative, ciò che rappresenta anche un ostacolo allo sviluppo della cosiddetta “cittadinanza digitale”, ovvero la possibilità da parte dei cittadini di accedere ai servizi digitali della Pubblica Amministrazione che sempre più spesso riguardano anche il settore del welfare. Il Fondo per la Repubblica digitale cerca a questo proposito di diminuire le diseguaglianze intervenendo sul gap digitale che interessa una parte consistente del Paese ma il processo è ancora lungo se pensiamo che secondo il Digital Economy and Society Index della Commissione europea, in Italia il 58% della popolazione tra i 16 e i 74 anni non ha competenze digitali di base.
In un senso ancora più esteso, quindi, potremmo considerare il digitale come una sorta di welfare della conoscenza o delle competenze. Perché se da un lato il digitale può favorire l’acquisizione di una nuova dimensione dell’essere formativo, dall’altro non esiste migliore medicina alle disparità che la conoscenza: il vero mastice che tiene insieme la società.