di Maurizio Pimpinella
A chi fosse ancora convinto che non stiamo affrontando un “periodo bellico” di fatto, dovremmo sottoporre i freddi e crudi numeri contenuti nell’ultimo Documento di economia e finanza recentemente licenziato dal Consiglio dei Ministri.
Lo scostamento di bilancio di 40 miliardi per finanziare il secondo decreto sostegni del Governo Draghi, infatti, avrà l’immediato effetto di far schizzare il rapporto debito/PIL al 159,8%. Come già rilevato su tutti i giornali, questo picco sarà sostanzialmente uguale a quello del 1921 quando proprio la Prima guerra mondiale costrinse il Regno d’Italia ad operare notevoli investimenti per reggere il confronto bellico salvo poi rientrare lentamente e in maniera parziale in un ambito di maggiore sostenibilità nel corso degli anni successivi.
Paradossalmente, entrambi i periodi storici recano degli interessanti parallelismi che, anche se sostanzialmente privi di relazioni dirette tra loro, mostrano come si possa imparare dalla ciclicità degli eventi. Nel 1921, infatti, in maniera simile al 2021, il mondo faceva i conti con le conseguenze di una pandemia: di Spagnola allora e oggi di Covid-19; si viveva un’epoca di incertezza politica generale e stavano nascendo accesi nazionalismi in parte paragonabili al sovranismo che ha caratterizzato l’ultimo biennio.
Allora, l’Italia era una giovane e dinamica, ancorchè martoriata dalla guerra, nazione, oggi, invece, subisce gli indicatori statistici che la vogliono coinvolta da un ineluttabile declino. Il picco del debito pubblico, ad esempio, proviene da una costante crescita avviata nella seconda metà degli anni Settanta e drasticamente peggiorata a partire dagli anni Ottanta, cui nei decenni successivi non solo non si è riusciti a farvi fronte in maniera efficace ma al quale è stata impressa anche una forte accelerazione, e non da un evento congiunturale ed episodico.
L’aspetto demografico.
Nel 2020, infatti si è registrato un nuovo minimo storico di nascite dall’unità d’Italia (-3,8), e un massimo storico di decessi dal secondo dopoguerra. Entrambi questi indicatori ci costringono a ripensare il modello di welfare che ha caratterizzato il nostro Paese dal secondo dopoguerra ad oggi e ad avviare fin da subito politiche di sostegno alla famiglia, all’innovazione e al lavoro giovanile considerato anche il fatto che la base dei contribuenti alle spese dello Stato – alle evidenze attuali – andrà progressivamente assottigliandosi, tanto che il Lancet, in uno studio pubblicato nell’estate del 2020, ipotizza che nel 2100 l’Italia avrà una popolazione sostanzialmente dimezzata rispetto a quella attuale.
In ultima istanza, infine, le classifiche relative alle competenze digitali che ci vedono ancora e costantemente ricoprire gli ultimi posti in Europa (24° su 27 economie analizzate), ciò che inevitabilmente produce dannosi effetti anche sul piano occupazionale.
È evidente, quindi, che siano necessari interventi economici e culturali shock, ed è proprio questo l’obiettivo, almeno apparentemente di medio periodo, che si sta cercando di portare avanti con il combinato disposto dal decreto sostegni bis e dal PNRR ancora in fase di elaborazione da parte del Governo. Inoltre, a nostra disposizione abbiamo due importanti leve che, se ben utilizzate potrebbero consentire non solo di sopperire alle evidenti e perduranti lacune di cui soffriamo ma agevolare anche in rilancio economico e sociale senza precedenti: l’Unione Europea e la transizione digitale che deve essere lo strumento principe deputato ad accompagnare la transizione verso un’economia ed una società sostenibili sotto tutti i profili.
Il passaggio del DEF in Consiglio dei ministri è stato quindi fondamentale per delineare, come detto da Mario Draghi, una “visione espansiva dell’economia” in cui il rientro a parametri sostenibili di debito rappresentano una parte sostanziale. Ed è proprio perché la “sbornia de deficit” non può durare a lungo che tali interventi devono essere in grado di produrre un’importante crescita economica.
In questo contesto, l’Italia ha necessità di agganciare i principali trend di sviluppo ed investimento digitali, ciò che contribuirebbe a sopperire in maniera efficace al depauperamento della popolazione. Secondo una ricerca recente di Deloitte, ad esempio, nei prossimi sei anni, con gli investimenti digitali l’Italia si gioca una crescita del PIL superiore al 10%.
Se poi, come sembra, saranno sbloccate opere pubbliche per un valore complessivo di 66 miliardi di euro, nei prossimi anni l’Italia sarà tutta un cantiere in sviluppo. Il PNRR diventa quindi la pietra angolare dalla quale partire per favorire la svolta del nostro Paese, cui affiancare un diffuso piano di educazione digitale, senza il quale ogni sforzo sarebbe obiettivamente vano.
L’altra componente per cementare questo percorso di crescita è poi la convinta ed attiva partecipazione alla definizione delle politiche di sviluppo innovativo varate dalla UE. I progetti europei sullo sviluppo sostenibile, la sicurezza cibernetica e l’intelligenza artificiale, proprio perché bisognosi di evidenti miglioramenti, non rappresentano solo una grande opportunità per tutti i paesi dell’Unione, cui abbinare i potenziali effetti espansivi di un ficcante e ben definito PNRR, ma sono anche un terreno su cui l’Italia deve confrontarsi con gli altri membri dell’Unione per arricchirli e trarne il massimo vantaggio competitivo aggregato, un trend espansivo che, purtroppo, non sarebbe possibile agganciare da soli.
Il processo di crescita che si auspica per i prossimi 5 /10 anni, quindi, è composto da un misto di interventi nazionali commisurati ed orientati ai necessari contributi alla politica innovativa europea di cui la transizione digitale deve essere il naturale asse portante sotto ogni punto di vista.
L’Italia non deve necessariamente arrendersi al ridimensionamento internazionale ma ha tutte le potenzialità per crescere ed essere protagonista del cambiamento europeo, l’alveo che da membro fondatore stesso dell’Unione, ha spesso ricoperto e che gli compete da sempre, nonostante a volte lo abbia dimenticato.