di Ruggero Alcanterini
E puntualmente ricorre anche per me la data fatidica del 23 novembre, quella del quarantesimo angosciante anniversario di un cataclisma, quello del terremoto che in novanta secondi ferì gravemente il pur coriaceo genius loci dell’Irpinia. Diciassettemila chilometri quadrati di distruzione tra il settanta e il novanta per cento di vecchie e nuove costruzioni, quasi tremila morti e trecentomila sfollati in cerca di riparo fisico e morale. Io ricordo bene quel dramma, per averlo vissuto da Vice Presidente dell’Associazione Nazionale Cooperative Turismo della Lega, proponente per la prima volta nella storia di una soluzione strategica per l’emergenza, quella di ricoverare le popolazioni vittime del sisma nelle strutture alberghiere di prossimità, rendendo disponibile il patrimonio ricettivo della Baia Domizia. Per questo, dopo la stessa accorata denuncia del Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, con l’operazione, di cui mi occupai personalmente in filo diretto con il Ministero del Turismo e con la popolare trasmissione “Chiamate Roma 3131”, ci fu un grande ritorno di sensibilità rispetto alle tematiche della protezione civile disattese dal 1970 – anno della Legge che la istituiva – e poi per le problematiche derivanti dalla fragilità degli insediamenti storici e purtroppo anche da una edilizia basata sull’amianto, sul risparmio del ferro e del cemento, avulsa da criteri antisismici. L’intervento per la “ricostruzione” fu devastante quanto e più del terremoto, perché una filosofia rapinosa portò alla parziale cancellazione di una identità formata nei millenni. In buona sostanza, con le macerie fu portata via l’anima dell’Irpinia, fatta anche di antichi manufatti, opere d’arte e testimonianze irreparabilmente delocalizzate, finite negli arredi dell’altra Italia. La triste esperienza del Belice, dodici anni prima, si ripeteva puntualmente aggiungendo macerie su macerie, quelle che si sarebbero accresciute a L’Aquila nel 2009 e ad Amatrice nel 2016. Tutti episodi e scene da un medesimo copione scritto dalla natura e intrepretato da noi italici nel modo peggiore, salvo nel caso della scossa in Friuli, nel 1976, quando riuscimmo a dare un risoluzione esemplare alla catastrofe, a dimostrazione del fatto che nulla ci è impossibile, nel bene e nel male e che dai terremoti non necessariamente si devono generare soltanto macerie.