di Pierfrancesco Malu
A volte, la storia, tristemente, si ripete. Questo è quello che può accadere soprattutto in paesi e in situazioni affetti da crisi cicliche ed endemiche che soffrono, tra l’altro, di una peculiare instabilità politica ed economica frutto anche di una cultura del tutto particolare.
Come ormai da settimane campeggia su giornali e televisioni, l’Argentina è, nuovamente, sull’orlo del baratro. Una situazione che sembrava essere stata strutturalmente superata a seguito dell’ultima gravissima crisi terminata ai primi anni Duemila e che l’elezione di Mauricio Macri, nel 2015, sembrava dover fugare definitivamente.
Il fatto è che l’Argentina è fallita ben 14 volte dal 1824 ad oggi, evidenza questa di un sistema politico ed economico strutturalmente fragile e “ben disposto” alle crisi sistemiche.
Nel frattempo, il Paese ha deciso di cambiare guida passando da quella orientata al mercato di Macri al peronista Alberto Fernandez, il quale proprio oggi ha candidamente affermato: “L’Argentina e’ in “default virtuale”. Questa è la minima evidenza dei fatti dopo che le agenzie di rating Fitch e Standard and Poor’s avevano decretato il default sul debito sovrano argentino.
Secondo l’attuale inquilino della “Casa Rosada”, tuttavia, la situazione sarebbe ben diversa da quella del 2001, in cui “allora avevamo il 57% di tasso di poverta’, oggi siamo al 41%. Allora c’era un default sul debito, oggi c’e’ un default virtuale”.
Venerdi’ scorso, la prima misura intrapresa dall’esecutivo era stata quella di differire ad agosto il rimborso di 9 miliardi di dollari di debito. Sabato, poi, il Congresso ha votato una legge d’emergenza, in vigore da oggi, che aumenta le tasse sulla classe medio-alta, prevede prestiti sociali ai bisognosi e un prelievo del 30% su acquisti e spese in moneta estera. “Dobbiamo porre fine alla prassi del risparmio in dollari. L’Argentina ha bisogno che i dollari rientrino in circolazione e facciano parte delle riserve statali, altrimenti e’ impossibile pagare le obbligazioni”, ha insistito, facendo riferimento a un debito di 330 miliardi di dollari, il 90% del Pil (di cui 44 miliardi presso il Fmi). La questione è appunto questa: il popolo argentino non ha piùalcuna fiducia nel proprio governo e nella capacità dello Stato di onorare i propri debiti, per questo preferisce convertire i pesos in dollari e conservarli a casa piuttosto che immetterli nel sistema finanziario. Certo, considerate le esperienze passate e quella più recente dell’ultimo fallimento del Paese è persino comprensibile che i cittadini abbiano questo timore alimentando però alla creazione stessa del problema.
L’Argentina è sostanzialmente lo specchio del costo potenziale che i Paesi emergenti pagano alla politica della Fed e al dollaro in rafforzamento e riflesso, seppur in ritardo, dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. In questo senso, secondo alcune analisi il Paese starebbe pagando anche il costo del tentativo di cambio nella politica economica di Macri: il suo obiettivo era infatti quello di poter arrivare ad accordi per trattati di libero scambio con gli Usa, la Ue e altri membri del Mercosur attraendo così nuovi investimenti e un riequilibrio dei prezzi dei prodotti importati. Obiettivo che si scontra naturalmente con l’ondata protezionista.
Altri osservatori internazionali sostengono che Macri abbia sbagliato negli aumenti progressivi dei servizi pubblici che erano stati congelati grazie ai sussidi statali, mandando così in dissesto i conti pubblici e in molti non hanno apprezzato la sua mossa di rivolgersi all’Fmi che in cambio del cospicuo prestito, chiede rassicurazioni su una maggiore austerity di bilancio, la qual cosa si traduce in maggiori sacrifici per i cittadini già provati a loro volta dalla profonda recessione di 7 anni fa.
Il malcontento popolare si è poi tradotto – come detto – nella recente elezione di Fernandez, uomo dalla visione diametralmente opposta a quella del suo predecessore.
Quello che attende l’Argentina è, adesso, un percorso di ristrutturazione e risanamento del debito che, evidentemente, non sarà scevro di sacrifici per un popolo che, a fronte del suo tradizionale orgoglio nazionale, è stato per l’ennesima volta prostrato da una politica incapace di rispondere alle loro più elementari esigenze.