Viviamo un’epoca di sospensione, di attesa tra mondi e tempi passati prima che il futuro si palesi definitivamente e in maniera chiara.
E così, tra le celebrazioni del trentennale della caduta del muro di Berlino – prodromo della vittoria del capitalismo sul comunismo e dell’inizio stesso della sua fase involutiva – ci interroghiamo su quale sia la strada che il capitalismo dovrebbe oggi intraprendere. Come recentemente scritto da Bertille Bayart su Le Figarò “il capitalismo è in piena introspezione” e – riprendendo le parole di Tocqueville – “il momento più pericoloso per un cattivo governo è quando comincia a riformarsi”. Giorni fa, anche noi ci siamo interrogati su quale potrebbe essere il futuro del capitalismo nei prossimi anni alla luce di un oggettivo cambio di tendenza che lo sta attualmente coinvolgendo, e abbiamo individuato la via maestra in un’economia che poggia sui pilastri della sostenibilità civica e finanziaria.
Dicevamo prima che viviamo un’epoca di sospensione. In effetti, mantenendo l’equilibro tra passato, presente e futuro siamo alla ricerca di una strada nuova da intraprendere, mostrando il fianco anche ai possibili revisionismi politici ed economici frutto, più che altro, della mancanza di una cultura storica di medio periodo. Tuttavia, l’attuale fase di autoanalisi del capitalismo potrebbe essere dovuta al fatto che ha, per così dire, perduto l’essenza della sua stessa natura basata sul liberismo.
Riprendendo sempre le parole della Bayart si può affermare che “un’economia autenticamente liberista poggia su tre pilastri: il diritto di proprietà, l’iniziativa e la responsabilità”. In particolare, secondo l’analisi dell’articolo pubblicato su Le Figaro, il pilastro dell’iniziativa sarebbe oggi fiaccata non tanto dalle norme più stringenti e dall’intromissione in economia di uno Stato sempre più “impiccione”, quanto dall’eccessiva concentrazione del potere in poche aziende e dalla sostanziale costituzione di nuovi trust.
Per ovviare a questo fenomeno, alcuni commentatori sono, addirittura, giunti ad invocare quello che in gergo è definito l’effetto Standard oil, vale a dire lo smembramento delle compagnie che accentrano eccessivi poteri e settori di intervento, divenendo dei conglomerati monopolisti di fatto, così come accadde nel 1911 alla Standard Oil a seguito della pronuncia della Corte Suprema USA sull’applicazione dello Sherman Act del 1890. Questa, con ogni probabilità, sarebbe, invero, una decisione tanto drastica quanto infruttuosa che potrebbe addirittura causare l’effetto esattamente opposto a quello sperato, finendo per rendere l’economia – anche digitale – ancora meno competitiva di oggi.
Nella sua analisi, poi, la Bayart mette l’accento su un altro dei nuovi capisaldi su cui dovrebbe poggiare il capitalismo moderno: la responsabilità. Ella, infatti, afferma che “tutte le società devono rendersi conto dell’importanza della responsabilità, perché la loro attività ha delle conseguenze, anche sull’ambiente”.
Il tema della responsabilità ci riporta quindi a quella che probabilmente è la principale necessità del capitalismo moderno ancora più della ricerca di un più puro ritorno al liberismo degli esordi: la sostenibilità in tutte le sue forme.
Molte importanti imprese – soprattutto occidentali – sembrano aver fatto propria questa necessità e stanno progressivamente cambiando pelle sviluppando iniziative che strategiche che poggiano sui nuovi pilastri di responsabilità e sostenibilità.
Per concludere, seguendo ancora le parole di Bertille Bayart “resta da reinventare l’articolazione fra le istituzioni democratiche e la libertà degli operatori economici. E quello che chiamiamo regolamentazione. E, contrariamente ai preconcetti, una regolamentazione di ispirazione liberista può esistere”.