di Maurizio Pimpinella
Accendendo la televisione e sintonizzandoci su una qualsiasi rete o leggendo parte considerevole della nostra stampa, quando si parla di pagamenti elettronici, si finisce sistematicamente col disquisire se siano più o meno funzionanti, legandoli indissolubilmente ad aspetti essenzialmente monetari.
Peccato però che la questione sia da un lato più semplice e dall’altro molto più complessa. I pagamenti elettronici, infatti, oggi non devono più dimostrare nulla a nessuno, avendo già dato ampia evidenza sia della loro sicurezza sia della capacità di sostenere interi comparti economici, proprio nel momento più buio come quello del lockdown e della pandemia in generale. E questo sarebbe l’aspetto semplice per evidenza.
Quello complesso risiede nello scindere lo stretto rapporto tra pagamenti elettronici e servizi finanziari e mera transazione, permettendo, invece, di far emergere l’aspetto in cui risiede la vera innovazione: i dati. Si perché i pagamenti elettronici sono essenzialmente dati, informazioni digitali sulle nostre abitudini e i nostri comportamenti, il fattore più ghiotto ed importante su cui tutti gli operatori finanziari, così come gli enti governativi e persino i pirati del cyber spazio desiderano mettere le mani.
L’avvento della PSD2, del Fintech, delle big tech, dell’open banking e della trasformazione digitale hanno stravolto le logiche del mondo dei servizi finanziari rendendo questo scenario un banco di prova estremamente probante per tutti i soggetti che vi si cimentano, che sono andate ben al di là della semplice offerta in forma digitale di un servizio offline.
Dai pagamenti al credito, sono scesi nell’arena tutta una serie di nuovi players che, assecondando o creando nuovi modelli di consumo e di vita, hanno contribuito a cambiare lo scenario esistente nel quale è aumentata enormemente non solo la concorrenza ma soprattutto la mole di informazioni disponibili che loro stessi sono in grado meglio di altri di intercettare.
Al di là di quello che alcuni possano pensare, tuttavia, questa ventata di innovazione dall’esterno è stata utile a tutto il sistema per crescere, farlo maturare e sviluppare un nuovo standard di servizi più in linea anche con le aspettative dei consumatori, instillando un prezioso valore aggiunto di cui sarebbe probabilmente stato sprovvisto.
E niente di tutto ciò sarebbe stato possibile, compresa la stessa trasformazione digitale, senza la crescita della data economy, alimentata dai cambiamenti normativi. Anzi. Il principio base dell’open banking poggia proprio da un lato sulla fruizione da parte dei clienti delle informazioni relative alle proprie transazioni e dall’altro sul principio della condivisione delle informazioni e un forte accrescimento della loro tutela nell’apertura.
In tale contesto l’acquisizione, l’elaborazione, l’arricchimento e l’utilizzo dei dati, delle transazioni e non solo, è determinante a creare dei dettagliatissimi profili dei consumatori, ed è evidente che chi possiede tutte queste informazioni possa godere di un notevole vantaggio competitivo. Ciò che però, a questo punto, diventa indispensabile è che vi sia uno stretto controllo sulle attività di tutti gli operatori in modo che vengano appianate le asimmetrie e che tutti possano partecipare allo stesso gioco alle stesse regole.
Eppure, nell’era dell’open finance, una ricerca di Forrester Consulting ci dice che solo il 12% degli operatori bancari è pronto per il digital: segnale che le differenze e le asimmetrie esistono ma molte di queste risiedono anche nella predisposizione di ciascuno di noi di sposare ed incentivare l’innovazione.