di Maurizio Pimpinella
Il fenomeno delle criptovalute è ormai noto da anni anche se è negli ultimi mesi che il Bitcoin e i suoi “fratelli” stanno assumendo una rilevanza mai conosciuta prima, macinando record su record quanto a valore ma anche alcune fragorose cadute.
Ma non è delle cripto valute come asset finanziario o speculativo che voglio parlare, ciò che qui mi interessa è la loro sostenibilità ambientale, un fattore per certi aspetti anche più rilevante della sua natura finanziaria.
Pur essendo bitcoin & co. uno strumento digitale, infatti, la loro produzione, ovvero il mining svolto da persone che con i loro calcolatori “estraggono” le monete, ha effetti estremamente tangibili in termini di consumo energetico e quindi di impatto ambientale. Un po’ come con le prime auto elettriche si discuteva se produrre l’energia necessaria ad alimentarle generasse più inquinamento (anche perché venivano usate spesso fonti non rinnovabili) delle auto tradizionali. Che produrre criptovalute contribuisca ad inquinare, ormai, lo sanno tutti, ma in quali proporzioni?
A questo proposito, basti fare pochi ma significativi esempi.
L’università di Cambridge ha messo a punto un interessante strumento per calcolare il consumo energetico dovuto alla produzione di criptovalute, il Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index, il quale attualmente ne stima in 15.01 GigaWatt il consumo annuale di energia (151, 16 TWh), il che è ben superiore al fabbisogno energetico ad esempio dell’Argentina (121 TWh), degli Emirati Arabi Uniti (113,20 TWh), della Norvegia (124 TWh) e dei Paesi Bassi (108,8 TWh). C’è di più. Rimanendo sempre nell’ambito dell’economia digitale, scopriamo che il fabbisogno energetico per la produzione di bitcoin è anche superiore a quello di due colossi come Google e Facebook, che necessitano rispettivamente di 5 e 12 THw. In Cina poi, dove le criptovalute sono sostanzialmente illegali, vi è un fiorente mercato per i miners, che però sta causando notevoli problemi sia dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico per le altre attività sia per il raggiungimento dei target climatici stabiliti dal governo di Pechino. Si stima, infatti, che il consumo di energia per la produzione di bitcoin raggiungerà nel 2024 il picco di 296.59 Twh, generando 130,50 milioni di tonnellate metriche di emissioni di anidride carbonica. Per fare un confronto pratico, questa quantità di emissioni legata all’industria del bitcoin supera quella complessivamente prodotta da Qatar e Repubblica Ceca in un anno per tutte le loro attività. Mentre il consumo di energia relativo a questo settore entro il 2024 sarà superiore a quella totalmente impiegata da Italia e Arabia Saudita nel 2016. Se volessimo stilare una classifica, il mining di bitcoin occuperebbe il ventinovesimo posto nella classifica dei paesi più inquinanti. A questo punto, la domanda che dovremmo farci è se, tutto considerato, valga veramente la pena continuare a minare criptovalute e se ciò sia realmente in linea con i criteri ESG (Environmental, Social, Governance) che sono diventati una vera e propria pietra miliare dell’economia etica. Lo stesso Elon Musk negli scorsi giorni ha fatto una rapida marcia indietro a proposito dei pagamenti cripto in Tesla, pare anche vendendone una quantità consistente. Recentemente, questo genere di valuta sta assumendo il ruolo di “bene rifugio” per molte persone, diventando uno strumento d’investimento piuttosto che uno di pagamento, ed è ovvio che parallelamente alla regolamentazione del fenomeno sia necessario un miglioramento generale dei fondamentali economici globali.
In contrasto con l’impatto ambientale prodotto dall’estrazione di bitcoin, bisogna anche evidenziare che il mining ha portato una forma parziale di sviluppo in aree remote, tendenzialmente poco sviluppate o comunque ben al di fuori delle grandi rotte commerciali ed economiche. Ciò è avvenuto, ad esempio, in Russia in virtù dello sviluppo di Ethereum, e in alcune aree della Groenlandia, dell’Islanda, del Kazakistan e della Mongolia interna, capaci di attrarre i miners e i loro hub di calcolo in virtù di un costo relativamente basso dell’energia (soprattutto in Islanda grazie alla geotermia ma anche in Kazakistan) e ai climi freddi che permettono lo sfruttamento ottimale delle macchine. D’altra parte, però, proprio la Mongolia, che ospita l’8% delle operazioni di mining bitcoin di tutto il mondo, starebbe avviando l’approvazione di una proposta legislativa volta a mettere al bando tale attività, ufficialmente proprio a causa dell’eccessivo ricorso alla combustione di carbon fossile. Vale quindi la pena compromettere parametri ambientali e accordi internazionali per la produzione di questo genere di valute?
Nell’ambito di una riduzione globale delle emissioni di Co2, su cui pare esserci finalmente una certa convergenza e su cui i principali paesi hanno assunto precisi impegni a riguardo, è evidente che anche l’incidenza delle criptovalute sull’intero ecosistema debba essere ripensata attraverso un’analisi attenta dei costi e dei benefici e di una regolamentazione seria, orientata alla stabilità finanziaria e alla tutela dei risparmiatori. Forse, non salveremo il pianeta smettendo di ricavare bitcoin ma è certo che la rilevanza del mining sulla resilienza ambientale della terra unito ai dubbi che persistono sullo strumento e il suo utilizzo, possono aiutarci a prendere una decisione consapevole.
L’intento tuttavia non deve essere quello di stigmatizzare aprioristicamente un fenomeno che, lo si voglia o no, fa ormai parte ( e sempre di più ne farà) del panorama economico – finanziario internazionale, ma se proprio l’economia e la finanza devono assumere approcci e finalità più etiche e sostenibili, anche le cripto valute non possono certo sottrarsi a tali principi.