di Maurizio Pimpinella
Di recente, il mondo del calcio è stato scosso dalla decisione di 12 tra i club più importanti al mondo di uscire dal governo calcistico della UEFA e procedere alla costituzione di un proprio torneo esclusivo sul modello della NBA americana: la cosiddetta Super League. L’idea, orientata al marketing e alla massimizzazione del profitto per competere su scala globale sia con gli altri sport tradizionali sia con quelli elettronici, ha fatto storcere il naso (non senza più di qualche ipocrisia) a molti commentatori e addetti ai lavori che si sono appellati allo spirito romantico e ai valori dello sport, richiamati a mo di anatemi nei confronti dei secessionisti. Quest’ultimi, da parte loro, hanno di converso affermato che il progetto – di cui per la verità si discute più o meno diffusamente da buoni dieci anni – è essenzialmente orientato alla sostenibilità del sistema calcio nel suo insieme che è tendenzialmente sorretto proprio dalla capacità di attrazione e dalla “produttività” sviluppati soprattutto da queste 12 imprese.
Ora, il progetto, dopo appena due giorni, sembrerebbe essere miseramente naufragato ma la questione è tutt’altro che risolta e finita. Dal lato UEFA, infatti, è prevedibile ceh ci saranno delle inchieste e probabilmente delle sanzioni; dal lato dei secessionisti quanto avvenuto ha tutta l’impressione di essere una semplice tregua, mentre il fuoco della Super League brucia ancora sotto alle ceneri del progetto andato in fumo.
Mettendo per un attimo da parte le vicende calcistiche, che ci servono essenzialmente come incipit, pensiamo se una decisione del genere fosse stata presa dalle big tech in ambito economico finanziario. In effetti, il paragone per quanto frutto di un certo azzardo, concede degli interessanti parallelismi tra i due modelli. I big Usa valgono 8mila miliardi di dollari, costituiscono il 38% del Nasdaq, il 25% dello S&P e producono – con le dovute proporzioni – numeri del tutto simili a quelle 12 (e potenziali 15) società fondatrici della Super League che da sole rappresentano davvero il più grande bacino di tifosi, fatturati spese di tutte le società calcistiche.
Alla luce di quanto accaduto, per le big tech sarebbe quindi possibile essere secessionisti nei confronti del sistema economico, finanziario e regolamentare internazionale?
Ritengo che, a differenza delle società calcistiche, uno strappo così netto e palese sarebbe più difficile da verificarsi in ambito finanziario, anche se alcune premesse che ciò possa avvenire sono già piuttosto visibili.
Dal punto di vista del potere economico e commerciale, la capitalizzazione di imprese come le FAMGA Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Apple, che ha superato gli 8mila miliardi di dollari, e che vale quanto il Pil di Giappone e Germania messi insieme, consente loro di fatto già di partecipare ad un “campionato” a parte rispetto a tutte le altre. Tuttavia, è proprio sotto il profilo regolamentare che queste imprese mostrano i principali segni di scollamento rispetto al sistema nel suo complesso e ciò porta la reale competizione nei confronti degli Stati e delle autorità di vigilanza che garantiscono il corretto svolgimento delle operazioni di mercato. A differenza della Super League, inoltre, le big tech non si sono create una loro competizione chiusa ed elitaria (ciò che come detto esiste naturalmente in virtù delle loro dimensioni), bensì una vera e propria enclave tecnologica all’interno dello scenario economico-finanziario-regolamentare competitivo vigente che consente loro di beneficiare di rilevanti asimmetrie, regolamentari ed informative, pur formalmente partecipando alle stesse competizioni delle altre imprese. Facendo un parallelismo col calcio, è un po’ come se le 12 ex fondatrici la Super League continuassero a giocare la Champions League iniziando però ogni partita con un gol di vantaggio rispetto agli avversari solo in virtù della loro maggiore capacità di attrarre e produrre valore e capitali.
C’è però una grande eccezione alla regola, ed è rappresentata dal caso Diem, la valuta digitale di Facebook antitetica – almeno nelle iniziali premesse – ai sistemi monetari e di pagamento ufficiali. Il solo annuncio dell’allora progetto Libra, ovvero di una stablecoin privata che poggiava su di un ricco paniere di beni e monete internazionali, era stato capace di generare un coeso sollevamento di scudi da un lato da parte di tutte le principali ( e non solo) autorità di vigilanza e dall’altro di buona parte degli stati del mondo. La portata di Libra era tale per il governo economico-monetario globale da rappresentarne il più probabile punto di secessione da parte di una big tech. Ciò sarebbe possibile in virtù del possesso da parte di Facebook di tre elementi essenziali: una moneta, un sistema di pagamento attraverso il quale diffonderla e scambiarla e un pubblico, per altro vastissimo e in parte consistente non bancarizzato, al quale offrirla. Da ciò si evince che si tratta di un progetto ben diverso non solo dal punto di vista tecnico ma soprattutto ideale rispetto a quello di una qualsiasi cripto valuta proprio perché concepito per il grande pubblico.
Considerare una scissione in ambito finanziario non è quindi così tanto impossibile, anche se va sottolineato come lo stesso progetto Libra ed ora Diem sia stato notevolmente ridimensionato proprio a causa della ferma e coesa opposizione delle autorità di vigilanza internazionali, ciò che è stato poi uno dei principali stimoli all’accelerazione della sperimentazione delle valute digitali garantite dalle banche centrali in tutto il mondo, dal renmimbi all’euro.
In futuro, dobbiamo essere pronti ad affrontare eventualità di questo genere proprio perché, ora come ora, gli strumenti di gestione e freno a nostra disposizione sono limitati mentre le grandi compagnie internazionali hanno tutti gli strumenti a loro disposizione, se non la volontà, per spingersi oltre.