Nei bozzetti pubblicati su Twitter i robot hanno le morbide fattezze dei protagonisti di un film Disney. E come in una pellicola della major di Topolino, frutta e verdura volano dal carrello connesso, che ti dice dove svoltare per comprare la tua dose consigliata di proteine. Benvenuti nel progetto della Ai City, una città controllata dall’intelligenza artificiale. Al suo creatore, Victor Ai, amministratore delegato della startup cinese Terminus Group, piace definirla come una “versione in grande dell’iPhone”. Fuor di analogia, si presenta sulla carta come una smart city molto avanzata, in cui grandi masse di dati raccolte da sensori sparsi in ogni angolo vengono rielaborate dagli algoritmi per mantenere in funzione i servizi, gestire sistemi automatizzati e rispondere alle esigenze dei suoi abitanti.
A dispetto dell’aspetto rassicurante dei bozzetti dei suoi robot, Ai City Cloud Valley – questo il nome completo del progetto, avviato lo scorso aprile a Chongqing – ha ricevuto una gelida accoglienza al Web Summit di Lisbona, una delle più grandi conferenze mondiali sulla tecnologia, dove è stata presentata lo scorso dicembre da Ai stesso. Quando il fondatore dello studio di architettura danese Big, Bjarke Ingels, partner dell’iniziativa, ha paragonato l’Ai City a un posto dove, anche se arrivi per la prima volta, il barista sa già quello che vuoi da bere, i commenti di alcuni utenti collegati non hanno nascosto le preoccupazioni di un sistema troppo invadente. Forse anche per gli standard che la stessa Cina vuole applicare alle aziende, mettendo un freno all’uso dei dati (altro paio di maniche quando si parla dello Stato).
Il mito delle città intelligenti
Un progetto come quello di Ai City è emblematico della rotta intrapresa dal Dragone. Suoi sono due dei campioni mondiali del 5G, Huawei e Zte, conditio sine qua non per far dialogare milioni di dispositivi connessi. E sulle città intelligenti investono colossi e startup rampanti, come la pechinese Terminus. Nel 2018 i consulenti di Deloitte calcolavano che, dei mille progetti di smart city finanziati nel mondo, 490 si trovassero in Cina. A questi si è aggiunto l’insediamento di Terminus Group, un campus che ospita oltre quaranta tra aziende tecnologiche e laboratori di ricerca.
“Quello che distingue Terminus”, come spiegano dall’azienda a Wired, “è l’idea di creare e costruire l’ecosistema di una Ai City”, nella quale i dispositivi connessi (dagli smartphone ai sensori dell’aria) e le piattaforme software interagiscono con le attività quotidiane di una città, dal supermercato all’ospedale. L’internet delle cose raccoglie le informazioni e le trasferisce ai sistemi di intelligenza artificiale, che li elaborano e anticipano i bisogni degli abitanti. Al Web Summit Ai e Ingels hanno citato finestre che regolano la loro opacità per svegliare dolcemente l’inquilino di un appartamento o una governante virtuale, dal nome per nulla diplomatico di Titan (non incoraggia a discuterci insieme), che sceglie le pietanze della colazione, suggerisce cosa indossare in base al meteo e presenta l’agenda della giornata. Insomma, un misto tra un buon prodotto di domotica e una versione cinese della Rosey dei Jetsons.
I piani del Dragone
Ma al netto di quello che Terminus può inventare di diverso rispetto a servizi che già assistenti come Alexa forniscono, un progetto come l’Ai City rappresenta un traguardo che la Cina vuole tagliare per prima. Quello delle smart city è un tema al centro dell’agenda politica e rispetto al quale “Pechino ha grandi ambizioni”, spiega a Wired Rebecca Arcesati, analista del Mercator Institute for China studies (Merics) di Berlino.
“Le smart cities erano menzionate esplicitamente nel tredicesimo piano quinquennale e sono centrali al raggiungimento di numerosi obiettivi strategici, tra cui leadership nelle tecnologie digitali ed emergenti, sostenibilità ambientale e transizione energetica, e rafforzamento della governance del partito-stato attraverso monitoraggio e sorveglianza della società”, prosegue Arcesati.
Non a caso la stessa Terminus, fondata nel 2015 con il sostegno di China Everbright group, conglomerato finanziario di Stato, insiste sul binomio innovazione-natura. Ingels spiega di essersi ispirato alle montagne fiabesche e alle gole del parco nazionale di Chongqing Wulong per progettare Cloud Valley. Dietro il suggestivo richiamo, tuttavia, le città intelligenti rispondono a criteri di controllo sociale. “Un termine molto usato è quello di safe cities (平安城市) ovvero network di sorveglianza urbana. Nel 2015 la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (Ndrc, un organo governativo, ndr) ha decretato che entro il 2020 tutte le aree pubbliche avrebbero dovuto essere coperte da videocamere di sorveglianza al 100%. L’integrazione di riconoscimento facciale e altre tecnologie alimentate dall’Ai sta procedendo”, aggiunge l’esperta.
Chongqing, dove Terminus ha gettato le fondamenta della sua città, è la metropoli più sorvegliata della Cina, racconta China Files, e, in tandem con Chengdu, rappresenta la frontiera occidentale delle Silicon Valley del Dragone. Di fronte a questo scenario, gli affari con hardware e software per la sicurezza sono assicurati. E la pandemia ha accelerato gli investimenti in sistemi per controllare ogni angolo delle città. Sebbene il coronavirus “abbia comunque influito negativamente sui round di finanziamento alle startup in generale – osserva Arcesati – per alcuni settori la crisi ha presentato opportunità”.
Vedi alla voce riconoscimento facciale: Sensetime, gigante tecnologico assoldato dal governo per la prevenzione a Covid-19, ha ottenuto finanziamenti per un miliardo nell’ultimo anno. Terminus non ha fornito dati a Wired sui suoi investimenti. L’archivio specializzato di Crunchbase le accredita 3,7 miliardi di yuan (circa 481 milioni di euro) raccolti in tre round. Tra gli investitori, oltre a Everbright, la stessa Sensetime, la piattaforma ecommerce Jd.com e il gruppo iFlytek, partecipato dallo Stato, che sviluppa anche software di riconoscimento vocale.
La via stretta al traguardo
“La nostra visione è di creare una piattaforma che chiuda il divario tra Ai e internet delle cose, in anticipo su quella che conosciamo come economia dell’intelligenza”, rispondono da Terminus, che dichiara 900 progetti in curriculum. Dall’azienda fanno sapere che la combinazione del boom dell’ecommerce, dell’avanzamento digitale e di nuove infrastrutture rendono per le smart city “il potenziale di mercato enorme”. La stessa Terminus, dopo Chongqing, dove occuperà un’area pari a circa 200 campi da calcio, dichiara: “Molte amministrazioni hanno stipulato con noi contratti per sviluppare localmente Ai City, come Deyang e Shenyang”, rispettivamente nel Sichuan e nel Liaoning.
Per quanto la crescita tecnologica cinese sia stata impressionante e il coronavirus abbia premuto l’accelerato su molti progetti, il primato globale che Pechino vuole conquistare entro il 2030 non è ancora una partita chiusa. Come ricorda Arcesati, rimane “la dipendenza dalla Silicon Valley per i framework di software per l’Ai, che sono sono open source e quindi liberamente disponibili”. In generale, per l’esperta, questo è “un ambito in cui le aziende cinesi ancora non hanno prodotto innovazioni radicali”. Poi c’è la dipendenza dai chip. E secondo i dati elaborati in un recente studio del Center for security and emerging technology dell’Università di Georgetown, “dopo il boom del mercato cinese dell’Ai tra il 2015 e il 2017, il valore dichiarato degli investimenti azionari in aziende di Ai private è sceso drasticamente tra il 2017 e il 2019”, dice Arcesati. Insomma, chiosa, “avere tanti dati non è tutto”.
Anche perché il governo ha stabilito di voler mettere un freno al loro uso da parte dei privati. Una delle vie per contenerne il ruolo sempre più predominante. Difficile stabilire quanto questo inciderà sulla competitività delle aziende del Dragone. Terminus non si sbilancia. “Più si evolve la tecnologia, più grande è la necessità di proteggere I diritti delle persone”, è la risposta dell’azienda, che assicura di “attenersi e abbracciare ogni legge o regolamento”.
Esportazioni high-tech
Tuttavia a Pechino non interessa solo il mercato interno. Lungo le rotte della sua Belt and road initiative, l’ambizioso programma di infrastrutture fisiche e digitali per connettersi al resto del mondo, il Dragone esporta il suo modello di tecnologia. Terminus, per esempio, si è aggiudicato una commessa per l’Esposizione universale di Dubai. “Terminus personalizzerà servizi e prodotti basati su 5G, iot, Ai e cloud”, spiegano dall’azienda, “specie 150 robot nei padiglioni e nelle aree pubbliche, tra cui robot di pattugliamento, di accoglienza, guide e fattorini automatizzati”. A cominciare da una delle mascotte, Opti, che “interagirà con i visitatori, darà loro il benvenuto, li abbraccerà e farà foto insieme”.
Si tratta di un antipasto degli accordi tra Terminus e Dubai, che prevedono la creazione “della prima Ai City nel Medioriente”. Per Arcesati, un finale piuttosto scontato. “Gli Emirati sono uno dei partner principali della Cina nell’ambito della Via della seta digitale. Varie aziende cinesi stanno lavorando allo sviluppo di smart cities nel paese, da Huawei ad Alibaba. Ma sono tantissimi i paesi che acquistano piattaforme per la sorveglianza pubblica da aziende cinesi, a volte col supporto di linee di credito fornite da banche di stato cinesi”. Un patto fondato su tecnologia, formazione e controllo delle informazioni che alimenta quel nuovo blocco mondiale di cui la Cina ambisce a essere la guida.