di Pierfrancesco Malu
L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo da metà febbraio e che si protrarrà – speriamo in fase sempre più calante – almeno fino ai primi di giugno, ha portato sotto l’attenzione di tutti l’evidenza della fragilità dell’essere umano e la necessità di tutelare la salute come bene e diritto primario di ciascun individuo.
Queste settimane, sono state scandite dai numeri, dalle paure e dai dati diramati ogni sera alle 18 dai comunicati della Protezione Civile che ci hanno aggiornato sull’andamento dell’epidemia che da oltre un mese ha portato al blocco totale delle attività produttive e sociali nel nostro Paese.
La pandemia ha fatto emergere piccoli e grandi personaggi, a volte negativi ma, molto più spesso, positivi che nascosti dietro maschere e mascherine hanno fatto tutto quello che era in loro potere – in condizioni estreme – per salvare vite umane e dare una speranza a chi non l’aveva più. Sono il personale medico e sanitario delle nostre strutture ospedaliere.
Sono stati spesso definiti eroi, personalmente – non me ne vogliano – preferisco definirli come semplici uomini e donne che hanno avuto la capacità di fare il loro dovere anche a costo di grandi sacrifici. Di questi tempi, è una caratteristica tanto preziosa quanto rara e di questo va reso loro merito.
In assenza, spesso, di volti vogliamo almeno dare voce a chi ha vissuto in prima persona le esperienze di questi terribili giorni che nessuno di noi, ciascuno a modo suo, potrà mai più dimenticare.
Abbiamo raccolto le esperienze di tre operatori sanitari coinvolti nell’emergenza Covid19, non perché più meritevoli di altri ma perché questi siano la voce di migliaia di persone che ogni giorno hanno lavorato silenziosamente per noi.
Andrea è un infermiere di terapia intensiva che lavora presso l’Istituto Clinico Sant’Ambrogio, uno degli ospedali del Gruppo San Donato a Milano. La Lombardia è stata tra le regioni più pesantemente colpite dall’epidemia ma il presidio presso cui lavora Andrea si è trasformato in terapia intensiva Covid19 solo verso il 10 marzo, quando la situazione si stava facendo quasi fuori controllo.
Da quel momento in poi, come ci racconta, il lavoro “È aumentato sia psicologicamente che fisicamente. Ci siamo ritrovati da un giorno all’altro a dover assistere pazienti critici intubati, coperti da testa a piedi per evitare di essere infettati, essendo un virus che si trasmette tramite droplets e contatto”.
La tensione per ciò che stavano facendo rimane costante nel corso delle ore per sé e per gli altri infatti, “Dopo la svestizione, rimane l’ansia e la paura di averla fatta correttamente. Subito una doccia per poi sperare di non portare nulla in casa”.
Se lo stress psicologico si fa a tratti insostenibile per il costante contatto col pericolo, cui non si diventa insensibili col tempo Andrea ci dice che “Fisicamente invece posso dire che fare cicli di pronazione (pratica medica per agevolare la respirazione dei malati attraverso il movimento) di circa 16 ore a 8-9 pazienti intubati, con diverse monitorizzazioni, numerosi supporti farmacologici ecc, è una bella sudata, ma necessario per migliorare l’ossigenazione. Il risultato infatti, visibile in qualche minuto, ci rende subito soddisfatti”.
Anche in una situazione limite come quella vissuta per lunghi giorni da Andrea, non sono mancati momenti di umanità e anche piccole soddisfazioni che, in questo caso diventano grandi conquiste. “Casualmente, ho avuto la fortuna/piacere di estubare il primissimo paziente Covid, dopo 12 giorni di cure intensive, che ci è stato trasferito da Bergamo a metà marzo. Un paziente molto giovane. È stata una bellissima sensazione, emozionante soprattutto, perché tutti i nostri sforzi sono serviti a raggiungere il nostro comune obiettivo.”
Particolarmente significative sono le parole di Andrea che descrivono gli scambi di mute parole tra lui e questo paziente in un momento in cui la sua vicinanza era l’unico conforto che questo ragazzo potesse avere. “Aveva il terrore negli occhi, ho passato un paio di ore a raccontargli tutto. Questi pazienti, settimane fa, sono stati sedati e intubati in un momento in cui vi era l’idea “Covid = intubazione = morte, e questo era l’ultimo loro pensiero prima di essere sedati. Quindi comprensibile la loro paura e agitazione al risveglio”.
L’esperienza di Andrea, che abbiamo contattato tramite WhatsApp in questi giorni sottraendo pochi dei suoi minuti liberi al suo lavoro è il racconto vivo di una persona che ha vissuto doppiamente la paura: la sua e quella altrui e che ha messo tutto l’impegno per superare la fase più critica delle nostre vite.
Nel salutarci, Andrea ci lascia un messaggio di speranza che porta, però, anche un monito “Ai lettori posso solo dire di non rovinare in questi giorni e nelle prossima settimane, il lavoro che abbiamo fatto da più di un mese, senza soste. Continuiamo a rimanere a casa. Immagino sia pesante e monotona la quarantena, ma purtroppo è l’unico modo che abbiamo per distribuire i casi positivi su un lasso di tempo maggiore. Anche qui a Milano, sembrerebbe ci sia qualche miglioramento, ma purtroppo il numero di casi positivi c’è sempre”.
“Personalmente non mi sento un eroe, sto solo facendo il mio lavoro, la mia passione, proprio come ho sempre fatto giornalmente da 6 anni in terapia intensiva, anche quando nessuno sapeva il lavoro che facevamo, a meno che non era ricoverato da noi (politici, calciatori, inclusi). Credo molto che il lavoro di squadra ci abbia aiutato a raggiungere piano piano le nostre quotidiane soddisfazioni, ma ci abbia aiutato anche psicologicamente nei momenti più difficili delle scorse settimane”.
Scendendo un po’ più a Sud nella nostra penisola, a Pisa, in Toscana, abbiamo parlato con Nicola, un giovane e appassionato medico di medicina generale che da qualche tempo svolge la propria attività come guardia medica o, come si dice ora, continuità assistenziale.
Nelle ultime settimane, Nicola è stato inserito in quelle che vengono chiamate USCA, vale a dire nelle Unità Speciali di Continuità Assistenziale che si occupano di offrire cure mediche domiciliari a pazienti o sospetti positivi al Covid19.
Ci racconta che “da quanto è iniziata la fase acuta della pandemia – che in Toscana per fortuna è stata meno impattante che nelle regioni del Nord – il lavoro del medico di famiglia è cambiato drasticamente nel tentativo di limitare il grande afflusso presso gli studi medici previo triage telefonico. Questo vale sia per quanto riguarda la valutazione del caso, ma anche per ciò che concerne le terapie. Per le ricette, ad esempio, siamo riusciti a migliorare tantissimo il metodo di diffusione per via digitale, tramite e-mail e sms”.
Ciò che è cambiato radicalmente nel lavoro di Nicola riguarda il contatto con i pazienti, diventato quasi del tutto assente e che come ci dice “è stato per certi versi fin troppo prudente, limitando però al massimo la possibilità di essere contagiati”. Nicola, infatti, ci dice che, inizialmente, la situazione per i medici come lui era molto più problematica, in quanto i dispositivi di protezione personale non erano quasi per nulla forniti, portando a gravi preoccupazioni che coinvolgevano i singoli come le loro famiglie.
Nel corso del primo mese, infatti, “noi dovevano continuare ad andare dai pazienti, i quali non sempre avevano ancora preso consapevolezza di quanto stava avvenendo, e forse nemmeno noi fino in fondo. Nonostante questo, eravamo del tutto sprovvisti di accorgimenti e questo è in parte la causa dei tanti morti avvenuti, soprattutto tra i medici di famiglia, circa la metà di tutti i deceduti tra il personale medico”. “In generale – conclude – la fase iniziale per quello che riguarda i medici di famiglia sul territorio non è stata gestita nel migliore dei modi ma, ora, per fortuna, le nostre condizioni sono di gran lunga migliorate”
Anche Nicola lascia un messaggio a tutti noi “quello che mi sento di dire è che dobbiamo seguire le indicazioni ministeriali e stare il più possibile lontano da tutti. Mi rendo conto che dal punto di vista economico tutto ciò produrrà degli effetti molti gravi ma da quello sanitario ancora di più, perché non ci possiamo permettere un altro picco dei contagi come quello del mese scorso che stavolta potrebbe avere degli effetti devastanti molti più morti. Dobbiamo usare il buon senso. Ognuno di noi deve dare il segnale che ha capito la gravità della situazione e rinunciare a qualcosa affinché si riesca a superare il contagio senza altri danni soprattutto per le persone maggiormente esposte e in pericolo.”
Bruna, invece, lavora a Torino e, come Nicola, è un medico di continuità assistenziale. La sua quotidianità come per tutti gli altri è stata stravolta in queste settimane, da quando, il 20 febbraio, l’emergenza sanitaria ha iniziato a farsi sentire più forte anche nella sua vita. “Gli strumenti presenti nella mia borsa medica come fonendoscopio, sfigmomanometro, saturimetro e otoscopio sono stati soppiantati dal Sig. Telefono che, in breve tempo, è diventato il mio “quasi unico” strumento di lavoro. Ho imparato a prestare attenzione al tono di voce, alle pause tra le parole, al numero di respiri e al modo in cui venivano fatti; questi sono gli unici elementi che posso analizzare e che possono darmi qualche indicazione su come muovermi”.
Nonostante questo, Bruna non ha perso l’abitudine al contatto col paziente, nonostante mille difficoltà. “Ho scoperto che è meglio essere scomodi ma poter visitare un paziente. Le mascherine FFP2/FFP3 sono una tortura, dopo qualche minuto ti sembra di essere in una camera senza ossigeno; i doppi guanti limitano la tua sensibilità tattile; il camice monouso ti rende elettrico e gli occhiali protettivi si appannano in tempo zero e ti sembra di essere a novembre in mezzo alla nebbia della Pianura Padana. Ma cosi hai la possibilità di visitare e capire qualcosa in più su chi hai di fronte”.
Anche Bruna denuncia un approccio territoriale non sempre impeccabile e, in perfetto tempismo con le inchieste che in questi giorni riguardano gli accadimenti del Pio Albergo Trivulzio, ci racconta anche lei di un’esperienza avvenuta in una casa di riposo, raccontando come spesso si è costretti a lavorare senza tutele. “Le storie degli OSS delle case di riposo, troppo spesso catapultati senza protezione e gestire gli anziani, loro che sono il personale che ha maggiori contatti diretti con gli ospiti. Teresa per esempio, dopo aver lavato e vestito un’ospite poi risultata positiva al COVID19, ha sviluppato sintomi. In una gestione corretta la direttrice sanitaria della sua RSA avrebbe dovuto segnalare il caso e il medico competente si sarebbe dovuto preoccupare di fare i dovuti accertamenti. Invece Teresa si è trovata a dover elemosinare al suo medico di famiglia giornate di mutua e la segnalazione al servizio di igiene. Alla fine, dopo ben 3 settimane e solo perché a corto di personale, la sua RSA le ha fatto finalmente il tampone”.
Talvolta, il coraggio di andare avanti in mezzo a tante difficoltà lo dobbiamo trovare solo dentro noi stessi, altre volte, invece, sono le stesse persone cui si presta assistenza a infondere coraggio e di questo Bruna è profondamente grata. “Infine, ci sono loro, i pazienti. La maggior parte di essi ha capito la situazione e a ogni contatto telefonico mi ha dato coraggio. È incredibile come un “grazie”, un “tenga duro”, un “si riguardi” possano fare la differenza”.
Nel salutarci, Bruna ci riporta con i piedi per terra, uscendo per un attimo fuori dall’emergenza Covid19. “Mi preme dire una cosa importante a tutti. Siamo in emergenza sanitaria da COVID19 ma le altre malattie esistono ancora. . Se vi consigliamo di andare in pronto soccorso seguite il nostro consiglio; sappiamo e comprendiamo che abbiate paura ma sappiate che quando vi diciamo di andare in ospedale lo facciamo nel vostro interesse perché per noi la cosa più importante è la vostra salute”.
In conclusione, vorremmo ringraziare Andrea, Bruna e Nicola che si sono prestati a portare questa loro testimonianza. Ci rendiamo conto che esistono centinaia di voci non ascoltate ma, allo stesso tempo, speriamo che queste possano essere utili per raccontare dal vivo il nostro Paese nella quotidianità di ciò che avviene.
Un ultimo messaggio, quando tutto questo finirà, ricordiamoci ancora di Andrea, di Bruna, di Nicola e di tutti i loro colleghi che hanno continuato a svolgere il proprio dovere con passione e dedizione. Noi e le Istituzioni, in futuro, dobbiamo farli sentire meno soli dando loro tutto il sostegno di cui avranno sempre più bisogno per aiutarci.
Grazie.