Legibus solutus, ovvero, letteralmente, sciolto dalle leggi. Una condizione, ben più ampia dei concetti di autonomia e indipendenza, propria degli antichi imperatori cui era riconosciuta la facoltà di essere, di fatto, esentati dal rispettare le norme vigenti e codificata prima dal filosofo romano Ulpiano e poi dal giurista francese Jean Bodin.
Nel corso della storia costituzionale europea, tale definizione è stata poi, attenuata e, in età medievale, ha assunto il significato che “ciò che piace al Principe ha valore di legge, ma solo perchè questo agisce per il bene della comunità promuovendo giustizia ed equità”[1]. Infine, una flebile, e in parte impropria, traccia di questa tradizione è rimasta poi persino nella Costituzione italiana (art.90) a proposito dell’irresponsabilità degli atti compiuti dal Presidente della Repubblica nell’esercizio delle proprie funzioni.
Il principio liberale più puro è quello che assegna al mercato stesso il compito di auto regolamentarsi trovando così il proprio equilibrio.
Tuttavia, il regime di asimmetrie informative e regolamentari nel quale ci troviamo attualmente nel rapporto tra operatori tecnologici e tradizionali impone una più profonda riflessione e rivalutazione del corrente contesto politico, giuridico e tecnologico al fine di evitare che tali imprese siano quasi avulse dalla normativa vigente.
In questi ultimi anni, infatti, gli operatori tecnologici internazionali danno a volte l’impressione di agire, in parte, in un regime di estraneità dal corpus giuridico nel quale operano con buona pace dei tentativi di regolarli.
Come evidenziato anche dal Presidente AgCOM Angelo Cardani nel corso dell’ultima relazione alle Camere “dai colossi di internet vi è un serio rischio di posizione dominante” rispetto a tutti gli altri operatori. Recentemente, poi, la Federal Trade Commission ha deciso di comminare una multa di ben 5 miliardi di dollari (la più alta di sempre) a Facebook per lo scandalo Cambridge Analytica ma questa, assieme alle richieste di revisione alla politica sulla privacy, rischia di essere un fatto ben poco incisivo e che anzi – in assenza di una struttura legislativa articolata e cogente – aprirebbe alla più chiacchierata impresa tech del momento – così come alle sue simili – scenari favorevoli ancora più ampi di oggi.
Il dislivello competitivo tra big tech e operatori tradizionali è oggi il frutto delle asimmetrie informative tra questi due mondi – che condividono però l’ecosistema – e del diverso inquadramento giuridico al quale rispondono. L’evoluzione del panorama afferente al mercato finanziario mostra dei contorni non ancora ben delineati quanto a operatori, strumenti e servizi offerti. Ciò comporta, di conseguenza, anche una certa difficoltà nell’individuazione di limiti e criticità dei settori fintech e big tech. L’individuazione degli eventuali snodi critici è il punto migliore dal quale partire per analizzare un settore le cui dinamiche non sono state ancora evidenziate completamente. Per capire e contrastare al meglio i fenomeni distorsivi che possono caratterizzare il mondo del fintech è necessario individuare gli operatori ed estendere a ciascuno di questi le regole di settore in modo da far fronte al fenomeno delle asimmetrie regolamentari che li coinvolge. In questo senso, è auspicabile il massimo rapporto di chiarezza e comunicazione sia tra i vari soggetti sia tra questi e gli Organi preposti a regolarne l’azione; il tutto al fine di tutelare l’integrità del sistema finanziario ed economico e favorire l’adeguamento delle regole comuni al nuovo contesto, tali per cui abbiano efficacia pur non ostacolando (ma, anzi, agevolando) il naturale sviluppo del mercato e la concorrenza.
Questo messaggio, con parole diverse ma dallo stesso contenuto, è stato uno dei punti centrali anche del discorso del Presidente dell’ABI Patuelli in occasione dell’Assemblea del centenario della sua associazione.
L’uniformità normativa e l’equità sono i fattori fondamentali in grado di determinare il benessere del mercato e dei loro componenti ed è significativo che entrambe le associazioni, APSP e ABI, siano allineate su questa necessità. Un mercato più equo nelle sue regole, inoltre, rappresenta la migliore condizione per uno sviluppo etico e sostenibile dello stesso e delle procedure che lo riguardano.
Un approccio costrittivo alla normativa, sia fiscale sia regolamentare, non rappresenta la via migliore da percorrere per l’individuazione di uno status di equilibrio che non faccia alcun tipo di preferenze. Così come il modello di società chiusa non favorisce lo sviluppo di una corretta dialettica di mercato, allo stesso modo, le chiusure protezionistiche non farebbero altro che sfavorire il mercato e, quindi, gli stessi clienti ed utenti. Dobbiamo, anzi, riappropriarci dell’agone dell’Unione Europea per stabilire tutti assieme le norme di crescita e di sviluppo che possano correttamente mettere in competizione tutti gli operatori allo stesso modo e lì lasciare che i siano i più capaci a prevalere.
[1] Definizione dell’ecclesiastico e filosofo inglese Giovanni di Salisbury (1160)