Nelle ultime settimane, in ambito economico si sta creando una sorta di dicotomia di principio dall’antico lignaggio tra i sostenitori dello Stato imprenditore e i fautori del massimo liberismo ad ogni costo. A questo dibattito è strettamente intrecciato anche quello relativo al sostegno ai campioni industriali UE, in particolare a quelli digitali, Margrethe Vestager permettendo.
In Italia, l’esperienza dello Stato imprenditore fu fatta negli anni Trenta, contestualizzata in uno scenario di necessità dovuto alla ricostruzione post-bellica. Il sistema, poi, ebbe successo e ci accompagnò fino agli anni Ottanta, quando il canto del cigno della politica italiana coinvolse anche l’intero apparato di industria pubblica. Le vicende passate, condizionano perciò il giudizio tra noi italiani che, appunto, ci dividiamo tra coloro i quali ritengono che tornare ad un modello economico misto, con lo Stato che prende le redini di alcuni settori chiave, sia pernicioso e improduttivo e coloro i quali pensano, invece, che tale modello potrebbe essere utile per risollevare la crescita economica. Certo, a confutare quest’ultima tesi ci sarebbero vari casi, di cui quello Alitalia rappresenta uno dei più significativi.
Tuttavia, si potrebbe addirittura avanzare l’ipotesi che entrambi questi punti di vista siano sostanzialmente sbagliati in quanto non osservano i fatti dalla giusta angolazione, mantenendo un orizzonte ancora troppo basso rispetto alle necessità del caso.
La prospettiva, infatti, non può più essere esclusivamente nazionale ma Europea. A questo proposito, è significativo quanto dichiarato dalla dottoressa Alessandra Lanzi (Prometeia) in una intervista rilasciata a “L’Economia” del Corriere della Sera: “si perde il senso dei cambiamenti epocali come quello che stiamo vivendo. La terza rivoluzione industriale è disruptive e i grandi paesi, come Cina e USA, ne sono così coscienti che si sono mossi per tempo. L’Europa purtroppo appare come il classico vaso di coccio. Basti leggere i documenti di politica industriale dei governi americano e cinese per avere davanti con chiarezza la loro strategia, che parte dalle materie prime. Gli States da almeno 5 anni godono dell’indipendenza energetica e la Cina nel frattempo si è mossa per accaparrarsi le materie prime in Africa.
In questo modo, hanno reso i propri apparati industriali sicuri e indipendenti. Aggiungo che al centro dei loro documenti c’è la nuova politica della difesa centrata sulla cyber security e finalizzata a produrre ricadute tecnologiche per usi civili”.
Difronte a questi due giganti che accompagnano i loro big industriali e tecnologici, è anche superfluo parlare di imprenditoria di Stato in quanto, tendenzialmente, inadatta a sostenere il confronto. Ciò non toglie che si potrebbe favorire la gestione di determinati settori tramite le Casse statali come già fanno, ad esempio, Francia e Germania. Piuttosto, l’aspetto negativo è che solo questi due paesi abbiano realizzato un manifesto industriale comune escludendo paesi come l’Italia che, nonostante tutto, rappresenta la seconda industria manifatturiera del continente.
Potremmo concludere dicendo che: siamo alle solite. Se spezzettati, pur portatori di eccellenze nessuno dei paesi europei è in grado di competere con i big stranieri. Per questo motivo, come titola l’intervista ad Alessandra Lanzi di oggi: “ci servono campioni europei ma ripensiamo ad antitrust ed aiuti”. La tutela della concorrenza è un valore, ma non può essere un cieco obiettivo da perseguire a scapito del ruolo internazionale di un continente che rischierebbe, altrimenti, di affogare nella normativa mentre gli altri corrono verso il futuro.
C’è poi un aspetto puramente politico che andrebbe affrontato e che riguarda la riottosità di noi europei che preferiamo competere per prevalere tra di noi piuttosto che fare gruppo. Un cambiamento culturale questo da cui non si può prescindere e che dovremmo capire il prima possibile per evitare di essere una semplice terra periferica di un mondo polarizzato.