di Maurizio Pimpinella
Il rapporto tra economia digitale e sostenibilità è un tema di grande attualità, soprattutto in questa fase storica in cui potremmo avviarci – almeno in Europa – verso una preoccupante crisi energeticae una forzosa riconversione e diversificazione delle fonti di approvvigionamento.
Molte imprese, ad esempio, indirizzano enormi sforzi economici– soprattutto di marketing – in piani di sensibilizzazione per un approccio sostenibile sia al consumo sia alla produzione: il problema però è che – dati alla mano – questa è un’operazione che nei fatti non riesce ancora a produrre effetti significativi, anzi. Tra le varie nuove attività economiche, abbiamo indicato a lungo nel mining di criptovalute una significativa causa di dispendio energetico, e quindi di inquinamento.
Secondo, infatti, i dati del Bitcoin Electricity consumption Index dell’Università di Cambridge(l’ente più accreditato per questo genere di misurazioni), la struttura per la creazione di Bitcoin consuma circa 134 terawattora, cifra equiparabile al consumo di una nazione di medie dimensioni.
Tra i pro e i contro di tale attività, in paesi in cui non si registrano particolari problemi di fabbisogno energetico, vi sono i costi sociali, economici e finanziari dovuti al mining (in gran parte suddivisi col resto della comunità mondiale) ma anche le opportunità per il Paese e le comunità ospitanti dovute all’installazione delle imprese e degli hub attivi in tale settore.
A questo proposito, basti pensare al Kazakistan (il secondo produttore cripto dopo gli Stati Uniticol 18% della produzione mondiale) che di recente ha accolto ben 90 mila aziende, fuoriuscite soprattutto dalla Cina. È quindi evidente che per alcuni paesi il mining rappresenti un business rilevante e relativamente facile da accedervi.
In molti casi, quindi, è anche probabile che siamo portati a valutare i costi energetici di questa attività influenzati anche dalla considerazione che abbiamo del settore cripto nel suo insieme, ritenuto spesso più come un pericolo non necessario che come una vera e propria opportunità. Vi è, infatti, un ristretto gruppo di imprese – le cosiddette big tech – che in termini di consumo energetico e di inquinamento hanno ben poco da invidiare alle criptovalute, il tutto nonostante i già citati impegni per favorire la sostenibilità. Ciò per dire che lo smog digitale è un fenomeno che esiste e che va affrontato.
Iniziamo col dire, ad esempio, che secondo gli studi di Karma Metrix, se internet fosse un paese sarebbe il quarto al mondo per emissioni di Co2. Per intenderci, il digitale pesa sull’ecosistema terrestre per un 3,7% mentre il vituperato traffico aereo solo per il 2%.
Le 5 big tech americane – Facebook (oggi Meta), Apple, Amazon, Netflix e Google – invece, hanno livelli di emissioni di Co2 annui pari a quelli del Bangladesh o del Qatar e superiori a paesi come la Repubblica Ceca o la Colombia. I dati assoluti, tuttavia, per quanto significativi non dicono tutto riguardo alle dimensioni del fenomeno. Tra il 2018 e il 2020, infatti, lo studio evidenzia che le emissioni prodotte da queste imprese sono addirittura cresciute del 17%, accompagnato da un fabbisogno energetico aumentato a sua volta del 54% (pari a quello della Romania, del Portogallo o della Grecia).
In questa speciale classifica poi, Amazon è saldamente in testa essendo responsabile da sola di oltre la metà delle emissioni (appesantita com’è anche dalla ramificata rete logistica), segue Applee poi le altre. In queste considerazioni, non teniamo conto poi delle big tech cinesi che probabilmente pesano almeno quanto quelle statunitensi.
Per le big tech, il consumo di energia e l’impatto sull’ambiente sono degli aspetti tutt’altro che trascurabili (anche, almeno in parte, per i loro bilanci) che dovranno necessariamente essere affrontati sia da loro sia dai paesi in cui, tra streaming, consegne e navigazione, effettivamente consumano e producono smog. A questo proposito, sarebbe forse stato opportuno valutare l’inserimento nella global tax – il cui avvio vive di una nuova fase di stallo che rischia di farla slittare al 2024 – anche di una sorta di “costo sociale” dovuto al consumo di energia e all’inquinamento prodotto, stabilito in proporzione allo stesso.
Ovviamente, nessuno qui vuole stigmatizzare né l’attività (pur migliorabile) di tali imprese né lo sviluppo dell’economia digitale per i cittadini, i cui vantaggi sotto vari profili possono tranquillamente essere di gran lunga superiori ai costi che comportano. È però necessaria anche in tale ambito una presa di coscienza da parte di tutti per un uso consapevole degli strumenti digitali, consci che ad ogni clic corrisponde anche un costo per noi e per l’ecosistema in cui viviamo.