di Maurizio Pimpinella
Nell’ambito della trasformazione digitale e dell’interazione che i nuovi strumenti tecnologici hanno nei confronti delle nostre abitudini di vita, lavoro o acquisto, soprattutto a partire dall’ultimo biennio, vi è spesso una profonda confusione semantica che conduce poi a scambiare la vera natura giuridica, fattuale e operativa di determinati contesti. Per meglio comprendere questo concetto oggettivamente non semplice, vale la pena prendere ad esempio due particolari contesti oggi di particolare attualità: il cosiddetto smart-working e il metaverso.
Per quanto riguarda il primo ambito, dal lockdown della primavera del 2020 in poi, abbiamo progressivamente preso confidenza con una modalità di lavoro prima quasi del tutto sconosciuta in Italia ma che ora va radicandosi, pur con qualche resistenza, ottenendo anche dignità d’essere. L’Osservatorio Digital Innovation del Politecnico di Milano, nel 2021, ha, infatti, stimato che ben 4,38 di lavoratori italiani aderiranno a questa tipologia di lavoro nel post pandemia con modalità ibride e tra le stesse aziende inizia a farsi largo il concetto che da un più equilibrato bilanciamento tra forme, tempi e modalità di lavoro tragga beneficio la produttività generale dell’individuo. Peccato, però, che lo smart working così come lo intendiamo comunemente noi abbia spesso ben poco di “smart” e non corrisponda granchè a ciò che dovrebbe essere. Secondo la definizione che ne dà il Ministero del lavoro, lo smart working “è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro”. Nel senso più esteso di tale concetto, il lavoro smart è simile a quello da freelance in cui il lavoratore ragiona per obiettivi e scadenze ed è fortemente responsabilizzato per le proprie azioni. Alla prova dei fatti, invece, noi chiamiamo smart working la semplice duplicazione del lavoro d’ufficio – e di tutte le sue dinamiche – a casa, con l’unico evidente effetto di moltiplicare video conferenze – spesso inutili – tese solo a ricreare il classico ambiente lavorativo. Mentre in buona parte del resto d’Europa si implementa l’accorciamento della settimana lavorativa, in Italia, complice una cultura e delle infrastrutture sicure ed efficienti carenti, ragioniamo ancora sull’utilità di questo modo di lavorare perseverando invece su concetti stantii.
L’altro contesto in cui la confusione – parallelamente alla crescita della sua fama – regna sovrana è appunto il metaverso, la nuova El Dorado dell’economia digitale. Da diversi mesi, infatti, sempre più imprese stanno investendo ingenti risorse nella creazione del proprio ecosistema o degli strumenti per viverci. Tuttavia, quella “vita accanto alla vita” che è il metaverso è molte volte confusa con una “semplice” realtà virtuale, che è cosa ben diversa. Dal turismo alla cultura, dal gaming alla moda realtà virtuale e metaverso si accavallano e mescolano mentre, invece, potrebbero essere ben più complementari di quanto non siano simili.
Il metaverso e’ un mondo complementare al mondo fisico ed integrabile con esso attraverso il ricorso a varie tecnologie ma, allo stesso tempo, è anche un ecosistema a se stante che avrà presto sue regole e modi di interazione a cavallo tra i vecchi principi del web e della netiquette e quelli della società civile.
Le parole sono sostanza e da queste derivano tecnologie, investimenti, ecosistemi e modelli di business diversi. Per questo, in tutti i casi in cui sono offerti servizi sul metaverso o si propone lo smart working, utilizzando la sola realtà virtuale o un normale lavoro delocalizzato, o non si conosce la differenza tra i significati e le implicazioni di tali ambiti o si tratta dello sfruttamento dell’onda lunga per ragioni di opportunità.
A questo punto, ciò che rimane da fare è fare chiarezza affichè ad ogni “nome” corrispondano le modalità di esecuzione corrette corrispondenti, il che può essere favorito dal coinvolgimento di veri esperti di settore nella definizione delle politiche e dei modelli di business, così che dalle parole si possa effettivamente passare ai fatti.