La quota delle Poste Italiane che sara’ ceduta al mercato non e’ stata ancora decisa, ma la certezza, come chiarito dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, e’ che si manterra’ in mano pubblica il 35% in modo da conservare il controllo.
Questo vuol dire che si potra’ vendere fino al 29,26%, visto che a oggi la partecipazione pubblica nelle Poste, tra Mef e Cdp, e’ pari al 64,26 per cento. In particolare, il provvedimento, come chiarito dalla nota di ieri, riguarda la quota controllata direttamente dal Mef (a oggi pari al 29,26%) con l’obiettivo, spiegava il comunicato, di mantenere il controllo pubblico “anche in maniera indiretta”. Una volta avviato l’iter con il provvedimento approvato in esame preliminare dal consiglio dei Ministri di ieri, il Dpcm andra’ alle commissioni parlamentari competenti per il parere, per poi avere un nuovo approdo in consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva. Solo dopo potra’ essere avviato il procedimento vero e proprio dell’alienazione della quota.
La previsione di un paletto alla vendita di quote ricalca quanto avvenuto con il primo Dpcm del 16 maggio 2014 intitolato ‘Definizione dei criteri di privatizzazione e delle modalita’ di dismissione della partecipazione detenuta dal Ministero dell’economia e delle finanze nel capitale Poste Italiane’. All’epoca infatti, il provvedimento prevedeva che lo Stato non potesse scendere sotto la quota del 60 per cento. Poi si decise di vendere un po’ meno, piazzando sul mercato il 35,3%. Non e’ detto, quindi, che anche stavolta, con il nuovo Dpcm, la quota che sara’ messa in vendita non sia poi piu’ bassa del 29% che e’ il tetto massimo. Su questo punto, a quanto si apprende, non c’e’ stata ancora una decisione e stara’ poi al Mef stabilire la partecipazione da mettere sul mercato. Ai corsi attuali privatizzare l’intera quota del Mef farebbe incassare allo Stato circa 3,9 miliardi.
La prima privatizzazione di Poste Italiane, in particolare, e’ avvenuta nell’ottobre del 2015 quando il ministero del Tesoro ha collocato 461 milioni di azioni, cioe’ il 35,3% del capitale, a investitori istituzionali, dipendenti e piccoli risparmiatori. Poco meno di un terzo dell’offerta e’ andata a queste ultime due categorie, mentre la larga parte dell’operazione fu destinata ai grandi fondi, gestori e banche. La richiesta e’ stata piuttosto elevata, pari a 3,3 volte l’offerta, e l’operazione ha portato il Mef a incassare 3,1 miliardi di euro collocando i titoli a 6,75 euro per azione.
A giugno 2016 il Mef ha varato un riassetto della partecipazione conferendo il 35% a Cdp, attraverso un aumento di capitale riservato della Cassa da 2,9 miliardi di euro sottoscritto in natura dal Tesoro, e mantenendo in via diretta una partecipazione di poco superiore al 29 per cento.
Dall’Ipo ad oggi, il Mef ha incassato circa 1,68 miliardi di euro in dividendi (considerando anche l’acconto sul 2024 distribuito a novembre) e la quota conservata si e’ apprezzata di 1,35 miliardi in Borsa (10,3 euro il prezzo attuale) nel corso di oltre 8 anni dall’esordio.