di Fabio Picciolini
La clausola di sospensione del Patto di stabilità e crescita introdotta a causa della pandemia, decadrà il 1°gennaio 2024 e senza una riforma tornerebbero in vigore le regole ante 2020: la Commissione europea, per evitarlo, ha presentato una propria proposta di revisione del Patto basato su tre assi portanti: trasparenza, condivisione, semplicità.
Per memoria, il Patto attualmente sospeso è incentrato sul rispetto di vincoli relativi alla sostenibilità del debito: disavanzo (3% Pil), deficit strutturale, rapporto debito/PIL (60%) previsione di riduzione del debito di un ventesimo ogni anno. Una previsione, in particolar modo l’obiettivo del 60%, anacronistica e con un forte sapore deflazionistico considerato che molti Paesi, dopo le varie crisi si attestano intorno al 100%.
È di tutta evidenza che l’attuale Patto non ha prodotto i risultati sperati per la presenza di troppe regole, non sempre tra loro coerenti, tra cui il peso assegnato a variabili non rilevabili in maniera oggettiva. La riforma del Patto proposta si basa sulla considerazione che un approccio unico per 27 Paesi, con economia, PIL e debito diversi, non sia possibile e, conseguentemente, sulla scelta di agire sulla crescita e sulle esigenze dei singoli Paesi ma, nella certezza che in un’area monetaria ed economica sempre più comune non adottare regole di stabilità e di crescita, comporterebbe che a causa della crisi di uno solo dei Paesi aderenti, potrebbe aversi conseguenze pericolose per la sopravvivenza della stessa area. La proposta prevede che la Commissione proponga delle indicazioni quantitative (definite “traiettorie”), a cui potranno aggiungersi, tempo per tempo, per singoli Paesi, se necessarie, raccomandazioni specifiche; Non saranno previsti specifici target annuali, ma una “traiettoria” di riduzione costante del debito, maggiormente progressiva, più graduale e più in linea con la capacità di rispettare le regole concordate, attraverso un piano di rientro di quattro anni (con una resilienza decennale), elevabile a sette con l’assenso della Commissione e del Consiglio europeo, dietro presentazione di precisi impegni, autonomamente, stabiliti sull’adozione di riforme e su investimenti pro-crescita; Infine previste “clausole di flessibilità” che consentano di rallentare l’aggiustamento a fronte dell’adozione di riforme strutturali, investimenti ed eventi inattesi. Ogni anno la Commissione verificherà la riduzione della spesa, potendo, però, intervenire, solo, in presenza di forti deviazioni rispetto agli obiettivi sottoscritti. Il piano approvato, dal singolo Paese, dalla Commissione e dal Consiglio dell’Unione europea, potrà modificarsi solo a causa di shock violenti e imprevisti, mentre potranno essere previste regole più severe per i Paesi ad alto debito, essendo a maggior rischio per sé e per l’Unione. In questo contesto, per i Paesi con il rapporto deficit/PIL superiore al 3%, è stato previsto l’obbligo di aggiustamenti di bilancio di almeno lo 0,50% annuo del Pil: per l’Italia rappresenterebbe un costo compreso tra 8 e 15 miliardi annui. Per quei Paesi potrebbe essere prevista anche la riduzione della spesa pubblica al netto di fattori esterni alle scelte nazionali e di aumenti della pressione fiscale e l’adozione di procedure di infrazione e di garanzie comuni.
La volontà della Commissione è palese: far percepire il nuovo Patto di Stabilità non imposto ma impegno nazionale, nel presupposto che la riduzione del debito non debba contrastare la crescita né gli investimenti, peraltro, già in larga parte programmati, come quelli sulla sostenibilità, l’ambiente, il digitale……
La proposta di nuovo Patto di stabilità e crescita è certamente più attinente alla realtà attuale e condivisibili anche se sono emerse posizioni diverse tra i vari Paesi. Nella premessa della proposta dovrebbe essere riportata una precisa condizione sulla politica di risanamento delle finanze pubbliche: quanto accaduto nel recente passato dovrebbe convincere che qualsiasi azione di risanamento non possa essere attivata durante fasi recessive, ma solo in periodi di crescita economica. Assente un aspetto fondamentale da riportare in questa proposta o in altre future: l’accentramento strutturale della gestione dei fondi europei, superando la logica dell’intervento emergenziale affidato alle scelte dei singoli Paesi. Si dovrebbe partire creando un bilancio europeo con entrate e competenze proprie, compresa l’emissione di titoli di debito sovrano europeo quale strumento di politica industriale comunitaria. Una scelta, oltre che utile, necessaria per far competere l’Europa con gli Stati Uniti e la Cina che hanno messo in campo ingenti risorse per lo finanziare lo sviluppo. In merito ai controlli e alle possibili azioni della Commissione e del Consiglio europeo, dovrebbero essere chiarite alcune loro verifiche, apparendo più invadenti delle attuali e con la possibilità di una diversa applicazione verso i singoli Paesi; ad esempio, pur con i limiti imposti dall’accordo tra il singolo Paese e la Commissione, il possibile intervento nelle
politiche nazionali della Commissione, la bilateralizzazione dei rapporti potrebbe portare a scelte disomogenee, infine, la verifica degli obiettivi attraverso le spese e le entrate e non attraverso i saldi di bilancio, includendo la spesa per interessi e per sussidi sociali che potrebbero produrre un aumento dei debito ed escludendo le spese per gli investimenti non convince. Per quanto riguarda le sanzioni prevista la riduzione di quelle monetarie e l’introduzione di sanzioni reputazionali e di condizionalità macroeconomiche. Potrebbe essere utile introdurre un sistema di incentivi per i Paesi virtuosi, accertato che hanno, generalmente, maggiore efficacia i sistemi premianti rispetto a quello sanzionatori. L’Italia alla presentazione del Patto e nelle prime discussioni ha rappresentato il rischio che anche con il nuovo Patto potrebbe dover ridurre gli investimenti pubblici, fondamentali per la crescita, ma anche quello di divaricazione economica tra i vari Paesi europei per la possibilità di utilizzo degli “aiuti di Stato” da parte solo dei Paesi a più basso debito; ha proposto di dare maggior peso alle espressioni dei singoli Paesi, avendo anche presente la decisione della Commissione di utilizzare, esclusivamente, una base algoritmica, senza alcun riferimento sociale ed economico, per “sollecitare”, la riduzione del debito pubblico ai singoli Paesi. Il “minimo sindacale”, per modificare questa “sensazione” è rendere pubblici, pesi e contrappesi, degli algoritmi utilizzati.
Inoltre, l’Italia ha proposto lo scorporo dal calcolo del deficit degli investimenti per transizione energetica per il digitale e per la difesa, la cosiddetta Gordon rule, di collegare la riforma del Patto a quella sugli aiuti di Stato, sul Piano industriale del Green Deal e sul quadro temporaneo di crisi e transizione, creare un fondo sovrano europeo con i fondi residui e quelli non utilizzati del NGUE e i fondi strutturali. Probabilmente, se l’Italia fissasse un solo obiettivo cui applicare lo scorporo, probabilmente avrebbe più possibilità di successo e di aggregare altre posizioni, a partire dalla Francia: scelta utile anche per superare le difficoltà politiche presenti. Infine, la Germania, per avere certezza della riuscita degli aggiustamenti da parte di tutti i Paesi, ha chiesto di inserire nel nuovo Patto l’obbligo di rientro annuale minimo del rapporto debito/PIL dell’1%. L’Italia, non da sola, sostiene, giustamente, che già esistono limiti “numerici” (anche troppi e erroneamente applicati, uniformemente, a economie differenti) ma ha già troppi dossier aperti con l’Europa per cui deve stare attenta a vari aspetti tra cui uno poche volte evidenziato negli approfondimenti che la riforma del patto non deve passare con la totalità dei Paesi ma è sufficiente la maggioranza qualificata (55% dei Paesi e 65% della popolazione europea). La posizione tedesca è stata già condivisa da altri dieci Paesi, anche se al momento non ha raggiunto le percentuali citata, ma altri Paesi con finanze migliori del nostro (e non solo) potrebbero unirsi a lei, isolando ancor di più l’Italia che a quel punto si troverebbe in una situazione molto critica: accettare l’accordo, essere l’artefice del mantenimento del patto originario (la scelta più deleteria per tutti) o ….., dove l’o non si sa che scenari economici e politici possa aprire.
In conclusione, stando al testo presentato, la riforma sembra utile per l’Italia incentrandosi, con i limiti citati, da un lato sulla responsabilità dei Paesi di gestire, con sufficiente autonomia, i bilanci nazionali e sul maggior tempo per il risanamento, dall’altro sulla crescita degli investimenti pubblici e ancora, sperando che sia la volta giusta, per ridurre la spesa pubblica improduttiva, certamente, superiore agli 8-15 miliardi necessari in caso di necessità di aggiustamenti al rapporto deficit/PIL Positività confermata dal fatto che se entro il 31 dicembre 2023 non fosse approvato il nuovo Patto tornerebbe in vigore quello pre-pandemia, certamente peggiore di quello ora presentato. I tempi sono brevi ed è necessario che i negoziati e l’approvazione del Parlamento e dal Consiglio europeo siano rapidi e costruttivi.