di Eleonora Tomassi
Giovedì 30 marzo l’ex Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, è stato rinviato a giudizio, nell’inglese “indicted”. Tuttavia il termine non può in alcun modo essere tradotto con l’omonimo italiano “incriminato”, in quanto l’accezione concettuale di quest’ultimo, che appartiene ad un altro contesto giuridico, cioè quello italiano appunto, ha un significato, in relazione allo stato dell’iter giudiziario, totalmente diverso da quello americano. L’ex Presidente risulta infatti ad oggi solo all’inizio dell’iter, non alla sua fine. Ciò tradotto nelle dinamiche giudiziarie italiane è paragonato allo stato di un ‘avviso di garanzia’. Niente quindi che abbia a che vedere, per il momento, con condanne o assoluzioni, ma trattasi propriamente di un’ammissione a giudizio. Di conseguenza risulta inverosimile utilizzare il termine “incriminato”, ma si deve piuttosto dire che il caso accettato dalla corte è stato ammesso a processo. Al termine del processo e solo conosciuto l’esito della sentenza si potrà parlare di innocenza o colpevolezza.
Inoltre è corretto specificare che oltre il 90% dei casi portati di fronte giurie federali dai rispettivi D.A “District Attorneys”, come nel caso di Alvin Bragg con l’accusa a Trump, vengono ammessi motivatamente a quella che viene comunemente definita “prassi”. Perciò che il caso in questione, portato dall’avvocato d’ufficio di NY Bragg, sia stato ammesso, non significa necessariamente che gli elementi per l’incriminazione sussistano né tantomeno implica una sicura o probabile colpevolezza. Tutto il caso, in virtù del principio di garantismo, oggi è solo che un mero punto interrogativo, se non forse qualcosa di più rilevante e gravoso per questioni altre che esamineremo di seguito con annesse conseguenze critiche.
Fatta questa breve, ma essenziale distinzione, analizziamo il motivo e l’essenza propria e specifica dell’accusa.
Nel 2016, prima di alcuna discesa politica, l’allora avvocato di Donald Trump, Michael Cohen, aveva pagato, su richiesta del primo, il silenzio della pornostar Stormy Daniels sulla breve relazione avuta con Trump, allora solo direttore della sua holding imprenditoriale. Il pagamento in sé tuttavia, non rappresenta l’illecito, anzi era perfettamente legittimo, ma è il COME questo pagamento è stato effettuato a farlo. Più propriamente il COME risulta identificato fiscalmente nei bilanci della società di Trump. Cohen avrebbe infatti anticipato i 130.000$ per la Daniels e avrebbe poi ricevuto un bonifico da 400.000$ da parte della holding “Trump administration” per il rimborso + fee del servizio, ma l’oggetto dell’accusa consisterebbe unicamente nella causale con la quale è stato registrato il secondo bonifico, ovvero nell’utilizzo del giustificativo di “spese legali”. Per “falsificazione di bilancio”, ossia il nucleo dell’illecito, si intende infatti la dichiarazione fiscale impropria del bonifico mosso dalla holding di Trump a Cohen. Questa, secondo l’accusa, non avendo avuto alcun fine vero legale, perché effettivamente intenta a nascondere un fatto privato, non avrebbe dovuto essere stata denominata tale.
È qui che però sorge allora un interrogativo spontaneo: “si tratta di un vero illecito o di una persecuzione politica ai danni di Trump?”. È evidente quanto infatti sia eccessivamente delicato e labile definire laddove i contorni di una attività legale siano o non siano legittimi, specialmente quando, come in questo caso, i soldi risultano effettivamente passati dalle tasche della holding di Trump a quelle del suo legale Cohen. E quindi molto difficile giudicare e decidere le attività che un individuo possa o non possa gestire liberamente con il proprio avvocato misurandone le denominazioni.
Gli Stati Uniti vivono da sempre fasi politiche di polarizzazioni molto forti, specie negli ultimi anni, tuttavia mai vi era stato il rischio che queste potessero portare ad un utilizzo politico della giustizia. Sembra quasi come se oggi invece, all’alba delle primarie repubblicane, a cui Trump è candidato, si avesse scelto di andare proprio in quella direzione, prediligendo la delegittimazione politica tramite l’utilizzo improprio della giustizia, alla sana competizione politica fondata sul rispetto del reciproco diritto ad esistere e della reciproca legittimità. Ciò non rappresenta quindi assolutamente nulla di buono per gli Stati Uniti, ma al contrario rischia di essere un pericoloso e drammatico precedente che potrebbe finire per minare la fiducia dei cittadini americani al sistema giuridico stesso e polarizzare sempre più agli estremi un dibattito sociale e politico già abbondantemente caldo.
D’altronde sia colui che ha portato il caso a giudizio, il D.A. Alvin Bragg, che colui che emetterà la sentenza, il giudice Juan Merchan, sono entrambi personaggi democratici, eletti nel partito democratico. Nulla di strano e illegittimo si sarebbe detto ieri, ma forse oggi quella stessa garanzia di credibilità, simbolo di un sistema democratico tanto ammirato, rischia di essere diventata troppo debole per meritarsi la fiducia piena e scontata di allora e lascia invece spazio ad un beneficio del dubbio e ad una discutibilità giustificate che diventano, per gli Stati Uniti d’America tutti, ogni giorno drammaticamente più importanti.