L’Italia, si sa, è un paese ricco di bellezza e di eccellenze e noi stessi italiani siamo un popolo che non manca certo di inventiva. Eppure, una delle nostre più grandi pecche è quella di non essere spesso in grado di trasformare le potenzialità in realtà. Ciò che fa più rabbia, però, è che siamo consapevoli, infatti, delle eccellenze di cui disponiamo ma, vuoi per pigrizia, vuoi per incapacità, vuoi per la frapposizione di interessi particolari, in molte occasioni alle parole non fanno seguito i fatti concreti.
Questo vale in moltissimi settori: dalla PA al turismo e il digitale non fa eccezione, anche in quanto fattore comune a questi settori.
Il risultato di questo atteggiamento è che la trasformazione digitale, ritenuta comunemente un imprescindibile elemento di sviluppo e crescita sistemica per il Paese, non sia mai considerata una vera priorità e che faccia la fine del povero Calimero, il pulcino tutto nero un po’ snobbato e messo da parte da tutti. Sintomo recente di questa evidenza ci è stata data dalla “retrocessione” del digitale dal rango di materia affidata ad un ministero ad una in capo ad un dipartimento. Questioni appunto di priorità e gli esempi a questo proposito non mancano, pensiamo al piano transizione 4.0. Su tale iniziativa si erano posate numerose aspettative da parte del mondo imprenditoriale, consapevole dei risultati ottenuti, tanto che sarebbe stato naturale considerare la sua transizione da “strumento di shock” a opportunità strutturale. Eppure, nonostante sia stata ritenuta prioritaria, è una delle tante iniziative che non hanno trovato spazio all’interno della legge di bilancio 2023, anche perché le risorse del PNRR (senza entrare poi nelle vicende politiche che stanno riguardando in generale tutto il piano) a disposizione del piano sono di fatto esaurite. Una sorte simile è spettata poi anche ai bandi per l‘innovation manager, di fatto poco sponsorizzati e sostenuti, per non parlare poi di Digital Innovation Hub e di Competence Center: tutte occasioni mancate lasciate – al momento – cadere nel dimenticatoio.
La reprimenda a proposito di queste iniziative non vuole essere fine a sé stessa ma fungere da monito. Pur con le dovute accortezze, proprio in questo momento, forme reali di sostengo alle imprese, soprattutto in ambito tecnologico dovrebbero essere considerate come degli investimenti di medio periodo nello sviluppo e nella competitività del Paese stesso, ciò che potrebbe produrre posti di lavoro e ulteriore ricchezza che confluisce da un lato in investimenti e dall’altro in imposte incassate dallo Stato stesso.
Gli esempi sopra citati sono particolarmente significativi ma non esaustivi della mancanza di visione che spesso riscontrabile nel digitale. Un’altra manifestazione – scevra di ogni logica della semplificazione e dell’efficienza – è rappresentata dalla vicenda dell’Hub digitale del turismo e del finanziamento da parte del Ministero dell’economia di True Italian Experience. Entrambi i progetti sono stati concepiti come dei punti di riferimento per la promozione e lo sviluppo del turismo italiano (che ricordiamo essere forse la principale industria del nostro Paese). Peccato che, proprio mentre il Ministero del turismo raccoglieva i fondi per avviare il primo – che tra l’altro ancora non ha visto la luce dopo oltre un anno – il Ministero dell’economia finanziava tramite ITA Airways il secondo. Questo è in qualche modo l’ennesimo colpo alla nostra industria del turismo, la vera eccellenza del nostro Paese costantemente osannata ma mai veramente supportata. Proprio in un ambito in cui il potenziale del digitale potrebbe realmente favorire la semplificazione, l’ottimizzazione delle risorse e lo sviluppo di un intero settore si dà seguito ad azioni esattamente contrarie, tra l’altro con un inutile sperpero di risorse pubbliche. Sempre su questo filone, purtroppo, non mancano poi gli esempi e quello del portale Italia.it ci viene servito su un piatto d’argento. Questo portale, già costato la bellezza di 45 milioni di euro, è la rappresentazione plastica di come i soldi pubblici – dal 2005 in poi – possano letteralmente finire inghiottiti in un buco nero, tra l’altro segna riuscire ancora a trarre nemmeno un ragno dal suddetto buco. In effetti, quello che dovrebbe essere semplicemente un sito-vetrina in cui si mette in mostra l’Italia, la sua offerta turistica e le opportunità che questa rappresenta ai viaggiatori è di fatto un ibrido privo sia di identità che di una linea editoriale che sostanzialmente (sconosciuto ai più) è sistematicamente bypassato. A questa spesa, è notizia recente, si andranno ad aggiungere altri 114 milioni di euro utili a integrare al portale un software di intelligenza artificiale. Nel frattempo, sono già stati persi vent’anni nel corso dei quali l’Italia nel suo insieme ha perso turisti, lavoro, sviluppo e ricchezza.
Sempre a proposito di sprechi, non si può non citare l’esempio – affatto edificante – di quella che era stata paventata come la Netflix della cultura italiana: il progetto ItsArt del Ministero della cultura. Intendiamoci, pur trattandosi di un progetto nato male e progredito peggio, tra l’latro anche questo nel corso di una travagliata gestazione, lo scopo di promuovere la cultura italiana sulle piattaforme digitali non è di per sé sbagliato, ne è certamente il concepimento dell’idea e della sua esecuzione. Partecipato al 51% da Cassa Depositi e Prestiti il progetto (lanciato nel 2021) è costato solo 22,5 milioni (rispetto ai 30 previsti tre anni fa) ma è stato l’insuccesso tra gli utenti a decretarne la chiusura: 141mila utenti registrati per 246mila euro d’incassi, per quasi metà cambio merce. L’errore, quindi, è stato quello – come hanno detto alcuni – di realizzare un progetto più per specchiarsi che non per offrire un reale servizio. A questo proposito, la domanda da porsi non è perché è stata creata la piattaforma (di, tra l’altro, nessuno sentiva la necessità) ma perché non è stata potenziata la già esistente piattaforma Rai Play che potrebbe accogliere tranquillamente (come in effetti in parte già fa) i contenuti propri di ItsArt.
La PA è poi uno dei contesti in cui il divario tra il dire e il fare digitale trova forse la massima espressione. Tra mancanza di competenze degli addetti, scarsa comunicazione e interoperabilità tra gli enti e la duplicazione delle procedure in cui quelle digitali non semplificano ma si aggiungono a quelle cartacee e analogiche, per non parlare poi della spesso ridottissima accessibilità ai portali ufficiali, l’utente si trova in presenza di un vero girone dell’inferno dantesco nel quale non è insolito essere rimbalzati da uno sportello all’altro in assenza di certezze se non quella di dover produrre ogni volta cataste di documenti cartacei, spesso doppioni di quelli già presentati all’ufficio precedente.
La scarsa lungimiranza negli investimenti digitali riguarda anche quei settori, come quello dell’e-commerce e dell’industria dei pagamenti in genere, che non solo sono portatori di innovazione per definizione ma che investono anche in capitale umano creando numerosi posti di lavoro. Fare la lotta a questo genere di settori, al di là delle doverose regolamentazioni, è una palese manifestazione di cecità che impedisce di vedere quanto, anzi, questi possano essere strategici per la creazione di competenze e di valore aggiunto, dell’industria così come de capitale umano.
Alla fine di tutto, un po’ come nel gioco dell’oca, siamo costretti a ritornare sui nostri passi. Ad iniziare dall’assenza di un vero ministero del digitale, magari arricchito anche di veri compiti di coordinamento e di educational e non solo di quelli da sostanziale passacarte tra i ministeri, la consueta mancanza di vision strategica d’insieme sono le cause principali di una transizione digitale che vive più del buon cuore e delle iniziative dei singoli che non di un progetto organico nato e concepito per soddisfare delle reali esigenze, il tutto con i limiti, gli stop e le deficienze che ciò comporta. È banale da dire, ma fare sistema per l’Italia rimane forse il principale limite, così come quello di stabilire una reale catena dell’accountability pubblica e privata, ciò che, evidentemente, fa la differenza tra un Paese avanzato e uno che ancora non sa se lo vuole diventare.