di Antonio Preiti
Di tutti i settori dell’economia, quello dove la trasformazione digitale è cominciata da tempo, anzi può dirsi completa, è quello del turismo. È avvenuto tutto silenziosamente, un passo alla volta, senza che nessuno (o quasi) se ne accorgesse, attraverso miglioramenti graduali, continui, impercettibili dei software, ma clamorosi nelle loro conseguenze. Siamo già al turismo 4.0 perciò, ma cosa significa?
Significa che se un albergo non sta nel catalogo dei grandi player globali (su Expedia e Booking) non esiste (o quasi); se una colonnina di ricarica elettrica non sta nella mappa digitale, semplicemente non esiste (ne sa qualcosa Enel X , che ha provocato una multa di 100 milioni dell’Antitrust a Google, perché non ha consentito a un’app di Enel di interagire con Android) e se c’è un giudizio (verificato o meno) su un ristorante o un albergo è possibile che questo cambi l’andamento dei loro fatturati.
Esiste poi il meccanismo del clickbait su cui ruota il business model dei social media, per cui si ottiene più facilmente un click se si offre una camera con vista Colosseo a 35 euro, piuttosto che un’analoga stanza senza la vista sul monumento. Ragion per cui si crea un circolo vizioso: per catturare l’attenzione si fanno le offerte più clamorose; le offerte sono clamorose solo se collegate a un posto iconico. Questo alimenta l’overtourism (lo alimentava, per la verità, ma tornerà inevitabilmente ad alimentarlo, epidemia permettendo).
Overtourist che a sua volta crea enormi problemi di eccesso in alcuni punti della città, mentre in tutti gli altri si crea un deficit di domanda. Siamo nel mondo della «instant economy», dove ispirazione, informazione e acquisto coincidono o tendono a farlo: non c’è un momento in cui si ha l’ispirazione, uno successivo in cui si cerca l’informazione (sul taxi, sul teatro, sul museo) e un altro ancora in cui si acquista il servizio. Questi momenti, che la scienza del marketing ha tenuto separati, adesso, grazie alla tecnologia, tendono a convergere.
Per questa ragione deve cambiare completamente la logica della politica turistica. Un tempo si partecipava alle fiere per promuovere una destinazione, per i tour opertator (la cui funzione è oggi minima); poi si è arrivati a creare i siti dove raccogliere le informazioni, e da ultimo le app da installare. Ma quanti siti e app ci vogliono per avere un quadro completo dell’informazione?
Oggi occorre tenere le informazioni in un solo posto (virtuale), senza saltare da un’app all’altra; le informazioni devono essere collegate all’acquisto del servizio e, allo stesso tempo, ai trasporti e ai pagamenti. Questo per Roma è fondamentale. La situazione è molto frammentata: le app dei taxi ovviamente non sono collegate con quelle dei musei; quelle dei treni a quelle degli alberghi e così via. In una Roma ospitale ideale, che può essere reale, perché le competenze e le tecnologie sono oggi disponibili, è possibile che nel punto x della città, essendo ispirati ad andare al teatro, chiedere, magari con linguaggio naturale, cosa c’è la sera stessa in cartellone, acquistare il biglietto, chiamare il taxi, farsi stimare la distanza e la spesa, e magari farsi indicare anche un luogo vicino dove prendere un cocktail.
Non è un mondo a venire, non è un’astrattezza, ma è il mondo del presente, un mondo che Roma non può lasciarsi sfuggire, altrimenti tutta l’informazione, perciò tutto il potere, e una quota di ricavi che nel caso degli alberghi supera anche il 20%, sarà nelle mani di chi saprà offrire questi servizi, ricavandone legittimamente molti introiti, decidendo inoltre, e soprattutto, la politica turistica della città con un grossolano o con un sofisticato algoritmo, poco cambia.