di Maurizio Pimpinella
La “dematerializzatissima” economia digitale poggia buona parte della propria fortuna su dei materiali invece estremamente fisici, derivati in parte consistente dal silicio, la cui estrazione ci rimanda alla corsa all’oro di metà Ottocento, e che oggi sono in grado di condizionare le scelte politiche delle potenze mondiali tanto da inasprirne progressivamente il confronto: si parla dei semiconduttori e della guerra che si sta scatenando attorno ad essi per controllarli.
I semiconduttori sono presenti ovunque e sono alla base di qualsiasi prodotto tecnologico oggi disponibile. Il loro utilizzo, infatti, spazia dalla mobilità elettrica alla produzione di energie rinnovabili, fino alle infrastrutture IT, alla difesa, agli smartphone, atte tv, all’intelligenza artificiale, allo sviluppo del 5G, ai pc eccetera. È pertanto evidente che la gestione di questa risorsa non sia solamente importante dal punto di vista economico ma fondamentale da quello strategico: chi gestisce la produzione e i flussi dei semiconduttori può permettere o impedire ai propri avversari di dotarsi a sua volta di strumenti tecnologicamente avanzati, potenzialmente capaci di nuocergli economicamente, ma anche militarmente.
Ci siamo solo recentemente accorti della loro importanza soprattutto perché a partire dal 2020 è stata registrata una penuria di questi materiali che ha condotto alla riduzione di componentistica elettronica, ciò che ha profondamente inciso anche sulla produzione di chip per auto, computer, smartphone eccetera, e ha evidenziato la debolezza strutturale della nostra società. Mentre è del 2021 la scelta del Governo Draghi di fare ricorso al golden power per proteggere proprio una piccola azienda lombarda specializzata in questo settore da una scalata cinese.
Gli Stati Uniti, che ancora detengono un ruolo più che rilevante nell’ambito della ricerca, soprattutto nell’ambito dei chip, e sono stati i primi a gettarsi nella produzione di questi materiali ma il primato si assottiglia ogni giorno a favore della Cina e di altri soggetti che hanno fortemente investito in autonomia tecnologica. Cina e Stati Uniti stanno investendo cifre enormi nello sviluppo di questa industria: 52 sono i miliardi di dollari stanziati recentemente dagli americani e poco più di 35 quelli investiti dai cinesi nel 2020.
In questa contesa, assume poi il ruolo di ago della bilancia La Repubblica di Cina, meglio nota come Taiwan, che da sola detiene il 54,1% del mercato fondiario globale dei semiconduttori che compongono i microchip e che per la piccola isola rappresenta ben il 15% del PIL. Taiwan non è ufficialmente riconosciuta dalla Cina, ma nemmeno dagli americani o da altri partner occidentali, eppure entrambe le potenze intrattengono con essa fitti colloqui commerciali ed è evidente che abbiano interesse nell’usufruire il più possibile dei suoi prodotti. Sotto questa prospettiva va letta l’iniziativa del governo Trump di bloccare l’export di TSMC (l’industria taiwanese produttrice di semiconduttori) verso i colossi delle telecomunicazioni cinesi. Una mossa non revocata, anzi ampliata, da Biden che ha immediatamente compreso la posta in gioco.
I cinesi, tra l’altro, vorrebbero mettere ben più di un piede a Taiwan ed è anche a causa di questo desiderio che, invece, gli americani intendono offrire ai taiwanesi tutto il loro supporto per garantirne l’indipendenza da Pechino.
Se già la produzione dei semiconduttori è un affare sempre più complesso, l’estrazione di quelle che vengono definite terre rare, lo è ancora di più e in questo segmento si inserisce una nuova voce di confronto che vede la Cina estremamente avvantaggiata essendosi assicurata ben il 70% di esse. Il lavoro diplomatico che è stato portato avanti nel tempo anche in altri continenti ha dato ai cinesi la possibilità di sfruttare a proprio vantaggio diverse situazioni in varie aree del mondo. Secondo uno studio pubblicato dall’Agenzia energetica internazionale di Parigi (IEA) lo scorso 5 maggio, due terzi delle terre rare prodotte al mondo vengono dalla Cina.
Una supremazia che si riflette nell’esistenza di sei gruppi di proprietà dello Stato, tra cui China Northern Rare Earth, leader mondiale e operatore nella più grande miniera di terre rare al mondo, a Bayan Obo in Mongolia. Inoltre, negli ultimi anni, Pechino ha stretto numerosi accordi con alcuni Paesi africani – Mozambico, Madagascar, Congo e Malawi – per assicurarsi un flusso stabile di terre rare e minerali anche al di là della dotazione domestica. Russia, UE e Stati Uniti cercano loro di contendere questo primato ma il vantaggio è attualmente troppo ampio per poter essere compensato.
La Cina, nel tempo, ha intessuto bene i suoi rapporti con vari paesi del mondo sostituendosi “amichevolmente” alle ex potenze coloniali stabilendovi così la propria influenza. Ciò che ne consegue oggi è una sorta di diritto di prelazione allo sfruttamento delle enormi risorse naturali presenti in buona parte dei quei paesi e l’estensione della propria sfera d’influenza persino ben oltre di essi.
In futuro, è prevedibile un esacerbarsi della tensione per il controllo e la gestione di risorse così tanto determinanti per lo sviluppo economico e sociale ed è per questo che auspico anche l’individuazione di protocolli internazionali per la loro gestione tali da soddisfare il fabbisogno complessivo di tutti gli attori chiamati in causa.