di Maurizio Pimpinella
Proprio in questi giorni, a tempo di record, l’Unione Europea e l’Italia hanno approvato le norme e avviato le infrastrutture tecniche per il green pass, in formato cartaceo e digitale, a partire proprio dal sito, dalla piattaforma e dall’interoperabilità con le app (in Italia Immuni e IO). Tutto bene e tutto bello, salvo eventuali problemi relativi alla privacy, per il momento. Eppure, nonostante questo scatto in avanti, accompagnato anche da alcuni evidenti miglioramenti negli indicatori generali, non possiamo non pensare che l’Italia non sarà digitalizzata, almeno in tempi brevi.
I motivi a questo proposito sono almeno tre: normativi/istituzionali, culturali, infrastrutturali.
La frammentazione delle competenze tra i vari enti: centrali, territoriali e locali, le agenzie specializzate e l’enorme (quanto necessaria allo stato attuale) produzione normativa secondaria (dall’inizio della legislatura sono stati previsti ben 1185 decreti attuativi buona parte dei quali attendono ancora di essere applicati), rendono alquanto difficoltosa la realizzazione di qualsivoglia intelaiatura comune snella ed efficiente.
In un simile contesto, è difficile anche immaginare una vera semplificazione normativa, amministrativa e burocratica che rallenta la ripresa e produce effetti negativi ad imprese e cittadini.
Nell’ambito sanitario, poi, questo freno trova una delle sue massime espressioni anche, e soprattutto, a causa del peccato originale che è stata quell’ormai famigerata riforma del Titolo V della Costituzione che ha frammentato il sistema sanitario nazionale in altrettanti, eterogenei tra loro, sistemi regionali. Negli ultimi vent’anni, quanto fatto è stato da più parti spiegato come uno dei più palesi esempi di cattiva riforma, ciò che però continua a creare numerosi problemi ed essere tra gli impedimenti della digitalizzazione del Paese.
Da mesi, ormai, cerchiamo invano di tracciare i contagiati da covid e ora abbiamo difficoltà anche nel gestire il piano di vaccinazione di massa per l’assenza di una anagrafe vaccinale nazionale che è stata invocata solo dopo che il problema si era presentato. A questo proposito, poco serve anche il fascicolo sanitario elettronico, anch’esso frammentato perché gestito dalle regioni e sostanzialmente mancante di una vera interoperabilità, che si potrebbe prestare con l’ausilio di altri strumenti ad assolvere a questo compito.
Il problema dell’acquisizione e della gestione dei dati non riguarda certo solo l’ambito sanitario ma è uno dei punti critici relativi a molti altri settori, determinandone arretratezza ed ostacoli allo sviluppo. Tutta la PA nel suo insieme denuncia gravi limiti in termini di digitalizzazione, competenze e “procedure cartacee”, con evidenti riflessi sulla semplificazione e velocizzazione delle procedure. Il processo di dematerializzazione era stato avviato già negli anni Novanta dalla famosa Legge Bassanini ma è all’inizio dei Duemila che con il Codice dell’amministrazione digitale che la digitalizzazione della PA si è dotata di una norma quadro. Al momento, però, nonostante gli sforzi, e i miglioramenti, l’implementazione delle buone intenzioni è ancora limitata. Tra l’altro, la digitalizzazione, rispetto alla dematerializzazione, inoltre, è un concetto che indica un intervento molto più ampio e per certi aspetti complesso, organizzativo e “radicale”. Esso implica quasi una “reingegnerizzazione” dei processi interni alla Pubblica Amministrazione così da cambiare sia la gestione interna sia la natura del servizio fornito al cittadino. L’Italia è un Paese ancora molto legato alle procedure cartacee, e spesso alla moltiplicazione di esse, basti pensare a quanti moduli dobbiamo compilare (e in quante copie) per la fruizione di qualsiasi servizio pubblico.
Come detto, i limiti alla digitalizzazione del nostro Paese non sono però solo di natura normativa ma vi sono anche delle componenti culturali ed infrastrutturali che incidono profondamente su questo aspetto e che sono, probabilmente, persino preponderanti.
La pandemia, il lockdown, la DAD, lo sviluppo del commercio elettronico eccetera non hanno fatto altro che rendere palese il ritardo digitale italiano ed imprimere una sorta di shock da cui mi auguro possa scaturire una ripresa reale in termini assoluti e in termini comparati rispetto agli altri paesi europei. La realtà dei fatti (fotografata dall’Istat), però, ci dice che ad oggi circa una famiglia su tre in Italia non possiede un computer o un tablet, strumenti essenziali oggi di studio e di lavoro.
Questa mancanza può essere parzialmente compensata dal fatto che gli italiani sono tra i primi possessori di smartphone al mondo ma tale strumento non si presta del tutto a sostituire un computer. Vi sono, poi, circa 3,5 milioni di famiglie che non hanno accesso a internet (per obbligo o per scelta) e che sono pertanto ab origine tagliate fuori da qualsiasi tipo di servizio digitale. Gli effetti di entrambe le statistiche sono stati tremendamente d’attualità per quasi tutto l’ultimo anno a causa della didattica a distanza cui in molti casi è stato pressoché impossibile dare seguito, fattore accentuato anche da una ricezione wifi migliore rispetto al passato ma non ancora ottimale, soprattutto per alcune zone più rurali.
Per quanto poi riguarda il capitolo competenze, anche in questo caso, nonostante la rimarchevole crescita registrata nell’ultimo anno, rimaniamo ancorati alle ultime posizioni dei principali indici internazionali, ciò che impedisce anche a imprese e cittadini di agganciare buona parte dei principali trend evolutivi. Competenze e disponibilità di strumenti digitali hanno frenato anche in parte la campagna vaccinale tra gli anziani (spesso letteralmente incapaci di accedere al servizio di prenotazione) ma non solo, creando un potenziale vulnus critico che lascia scoperte milioni di persone.
Alla luce di queste considerazioni, va aggiunto anche che l’Italia ce la sta mettendo tutta, le iniziative per la digitalizzazione, anche se non sempre adeguatamente concepite e condotte, iniziano almeno ad essere in numero consistente e questo consente di avviare progetti di crescita più espansivi, magari in futuro anche favoriti anche dall’implementazione del Pnrr.
Il passaggio al digitale che si sta affrontando per un Paese come il nostro non può essere scevro da differenze, discrepanze, incongruenze e paradossi. Ciò produce, così come in economia e nello sviluppo sociale, un Paese a due o più velocità che vede una parte di esso in ritardo rispetto all’altra. In questi giorni, ad esempio, uno studio della Banca d’Italia ha certificato che la Lombardia è la regione più digitalizzata d’Italia, mentre le altre con in testa quelle del Mezzogiorno seguono, talvolta a grande distanza. Il divario digitale non è un problema solo tecnologico ma anche sociale, culturale ed economico, perché la mancanza di strumenti adeguati per tipologia e numero, di reti a banda larga ultra veloci che garantiscano una connessione efficiente ad Internet e il ritardo culturale legato al basso livello di competenze digitali di base incidono in maniera molto grave sulla vita delle persone.
In una tale condizione, è addirittura in pericolo la garanzia di fruizione dei diritti fondamentali di ciascun individuo sanciti dalla Costituzione, dal lavoro alla salute, dall’educazione ai diritti civili. Ad oggi, i limiti normativi, culturali ed infrastrutturali ci frenano ancora in vari contesti, contribuendo ad impedire la piena digitalizzazione nel breve periodo, ma possono anche diventare le nostre più grandi potenzialità, l’arma in più capace di farci agganciare il treno delle riforme e della crescita che non può essere solo quella congiunturale del Pil “di rimbalzo” attorno al 5% prevista per il 2021.