L’accertamento bancario, e quindi l’utilizzazione dei dati ottenuti, vale come prova presuntiva di maggiori introiti. E puo’ essere usato per provare esistenza di attivita’ occulta e sul cittadino ricade l’onere di dimostrare in contenzioso l’irritualita’ della verifica e quindi il conseguente utilizzo dei dati acquisiti. Lo stabilisce la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 11915/21. Alla base della pronuncia il ricorso di un contribuente contro un avviso di accertamento per imposte dirette e Iva emesso a seguito di indagini bancarie in base agli articoli 32 del Dpr 600/73 e 51 del Dpr 633/72.
La Suprema Corte precisa che ove non sia contestata la legittimita’ dell’acquisizione dei dati risultanti dai conti correnti bancari, i medesimi possono avere un duplice utilizzo. E quindi possono essere utilizzati per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attivita’ occulta (impresa, arte o professione), oppure per quantificare il reddito da essa ricavato, incombendo sul contribuente l’onere di provare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti.
Nel caso specifico non risulta contestata la legittimita’ dell’acquisizione dei dati risultanti dai conti correnti bancari acquisiti in sede di accertamento nei confronti della societa’ di capitali e quindi ben poteva l’Agenzia utilizzare tali dati nei confronti del socio e del legale rappresentante.