di Maurizio Pimpinella
I principi, gli scopi e l’idea di fondo alla base del progetto Cashless Italia, avviato dal governo Conte lo scorso inverno, sono condivisibili: l’Italia ha urgente necessità di avviare la transizione ad una economia più digitale, semplificata e senza contanti, ma forse ciò avrebbe dovuto avere luogo in virtù di un diverso approccio nei modi, nei tempi e nella comunicazione, anche perché c’è differenza tra accelerare il passaggio e forzarlo. Ad oggi, infatti, non abbiamo ancora piena contezza dell’apporto che tali misure (ed in particolare il cashback) abbiano nel contrastare l’evasione fiscale e l’economia sommersa, così come richiesto a dicembre 2020 anche dalla Bce, nonostante l’evidente crescita delle transazioni cashless e, in particolare, di quelle contactless. Dopo tre mesi di attività, il cashback mostra ancora numerose imperfezioni e criticità da risolvere, frutto di un’operazione affrettata, di decisioni prese sul “tapis roulant” e non abbastanza concertate con gli operatori del settore attivi sul territorio e con le associazioni di categoria specialistiche. Tutto ciò contribuisce a indebolire un’idea sostanzialmente giusta, ma messa in pratica senza la dovuta attenzione.
A causa di queste e di altre criticità, l’attuale Governo Draghi, starebbe pensando seriamente di ridurne il finanziamento o addirittura di porre fine all’esperienza di cashback e supercashback, al fine di dirottare le risorse verso altri progetti del Recovery plan in grado di garantire un’adeguata, più rapida e tangibile crescita del pil.
A questo approccio si preferisce invece quello recentemente suggerito dal Comandante generale della Guardia di Finanza Generale Giuseppe Zafarana, nel corso di un’audizione sulla riforma dell’Irpef, in cui ha sottolineato la necessità di procedere attraverso una revisione del cashback tramite opportuni tagliandi e correttivi periodici orientati a calibrare la misura verso le esigenze più urgenti e gli effetti più efficaci.
Tra le ipotesi ci potrebbero essere, ad esempio, quelle di ridurre il bonus dal 10 al 5%, oppure di porre dei limiti temporali per la registrazione dei pagamenti presso lo stesso esercente così da impedire le multi transazioni o, ancora, fissare l’obbligatorietà di aprire una partita iva per tutti i possessori di Pos (e viceversa). Un’ultima ipotesi, sarebbe quella di gestire le risorse del cashback concentrandole verso alcune delle aree a maggiore pericolo di evasione fiscale, proprio come proposto dal Generale Zafarana. In estrema ratio, poi, si potrebbe addirittura pensare alla cancellazione del super cashback ma non a quella della versione ordinaria.
La stessa vice ministra dell’economia Laura Castelli ha ribadito che il cashback “non è solo uno strumento di lotta all’evasione ma anche una misura per cambiare il modo del cittadini di utilizzare il proprio denaro, una misura culturale”. Ed è da entrambe queste premesse che dovremmo ripartire, adottando una soluzione “liquida e modulabile”, che abbini a nuove, più efficaci e incisive iniziative, l’incentivo alla digitalizzazione, la riduzione del contante e il contrasto all’economia sommersa. Nell’ultimo anno, infatti, abbiamo acquisito nuove abitudini e molti hanno accresciuto la dimestichezza con gli strumenti digitali, perciò sarebbe controproducente stoppare l’apporto educativo delle misure cashless assieme a quello monetario. Si dovrebbe, anzi, rendere la misura più accessibile a tutta la popolazione in modo che i soldi pubblici diventino un investimento generalizzato in digitalizzazione e nuove competenze per tutta la popolazione.
E’ arrivato il momento di lavorare di concerto per il superamento delle criticità e il contrasto attivo dei furbetti con l’obiettivo di realizzare un Italia più digitale e semplice per il bene di cittadini e imprese senza gettare via ciò che di buono è stato fatto e che è migliorabile.