di Ruggero Alcanterini
Arriva un momento in cui non basta più correre, magari sempre più forte, ma occorre fermarsi e riflettere. Mai come adesso ci capitò e forse in vita ci capiterà di cogliere una pausa utile per la riflessione, così lunga e motivata purtroppo da una grave emergenza sanitaria. Per questo, ci possiamo permettere il lusso di interrogativi altrimenti inammissibili per una società civile, che riconosce lo sport come fruizione di spettacolo e come occasione di benessere tra gli interessi, che principalmente la connotano. Credo che, per chi come me e tutti coloro che di sport si occupano da molti decenni, sia giunto il momento di chiedersi quale sia il senso compiuto di un pendolo, che apparentemente oscilla senza suscitare trascendenza. Sì, perché lo dobbiamo ammettere, che dopo lo squillare delle trombe della rinascenza italica con la realizzazione del miracolo, con i XVII Giochi Olimpici di Roma, nel 1960, non è poi più accaduto nulla di rilevante, almeno dalle nostre parti. Non c’è dubbio, che il mancato inserimento del diritto allo sport nella Costituzione nel 1947 e la desertificazione motoria nelle scuole primarie abbiano creato un vulnus con ricadute negative di ogni genere, ingenerando la cultura dell’apparire, dell’agonismo, del business e della violenza per delega, piuttosto che la partecipazione aperta ed omogenea, consapevole, del ruolo primario che deve e può recitare lo sport, come attività partecipata, come opportunità formativa e di crescita in termini di qualità della collettività. Chiaramente, questo rischierebbe di finire tra i rottami della retorica, tra il noioso filosofare, che si è pur fatto senza raggiungere il podio, dal conferimento dell’incarico di Commissario a Giulio Onesti in poi, prima bloccati nel ginepraio dei pregiudizi antifascisti sullo sport e poi prigionieri di un incantesimo, incatenati per oltre mezzo secolo ad un concetto autarchico, senza futuro plausibile, quello più volte brandito come strumento di difesa, de “Lo sport agli sportivi”, legato ad una Legge istitutiva e di delega nata come compromesso durante il Fascismo e poi mantenuta con vari rattoppi nella prima, seconda e terza Repubblica. Da oltre settant’anni, cirioliamo tra andirivieni di Sottosegretari, Ministri pro forma e riassestamenti di una intervenuta sovrastruttura di supporto, ieri CONI Servizi ed oggi Sport e Salute, assolutamente in carattere con l’optimum del provvisorio, potenzialmente funzionale nell’ottica di una radicale riforma in funzione di uno Stato Moderno, che si dichiari veramente interessato alla salute dei propri cittadini, attraverso una generalizzata pratica sportivo motoria. Anche questo è un concetto ruminato e forse irrancidito da tante chiacchiere risultate inutili nel pratico della politica distratta e poco competente, afflitta da continue emergenze e tante legislature abortite prima del tempo. Quanti disegni di legge, quante pulsioni trasformate in conferenze di ogni tipo hanno trattato la materia, senza poi arrivare a dama? Bene, credo che questo sia anche il prodotto di una insulsa competizione tra parti apparentemente avverse, ma di fatto unite nell’intento gattopardesco di non cambiare e di rinviare sine die, a tempi migliori e sulle spalle d’altri, il peso e la responsabilità di un passo sinora incompiuto. Quindi, oltre la competizione, tra le componenti in gioco occorrerebbe competenza, quella per intenderci che non può prescindere dalla onestà intellettuale degli attori, ma che poi si deve vestire di conoscenza ed esperienza, di capacità visionarie, di coraggio dell’intrapresa, almeno fintanto che la situazione di sofferenza – in cui lo sport italiano, come diritto primario, soggiace alla logica del posticcio, del provvisorio e in definitiva dell’effimero – va d’inerzia di progetto in progetto, di campagna in campagna, piuttosto che di Olimpiade in Olimpiade, senza una meta definita. Infine, quella che ritengo la questione più importante, la capacità di generare ed utilizzare la giusta indispensabile energia positiva nel divenire, nella naturale viandanza del movimento sportivo, che è fatta di traguardi, appuntamenti ed anche celebrazioni, oggi anche individuali, ma in genere frutto di comunanza, anzi di fattiva compagnanza. Il condividere le emozioni e gli stress di un cammino, dovrebbe esprimersi in altro ed alto modo, a cominciare dal coinvolgimento di chi di fatto promuove e dirige il movimento sportivo, ma che in realtà è prevalentemente escluso dalla possibilità di contribuire con la propria esperienza e competenza, salvo pagare in solido per l’impegno di base, di prossimità. La riconoscibilità del ruolo fondamentale dei dirigenti e la loro gratificazione sostanziale in termini di tutela e riconoscenza, di riconoscimento del merito sociale dovrebbe essere un primo obiettivo da cogliere, una sorta di rivoluzione culturale da compiere. Quante sono state e sono le comunità sportive di appartenenza settoriale e territoriale, che potrebbero rendersi partecipi, straordinariamente utili e di cui non c’è nemmeno la percezione, laddove insistono i livelli determinanti di una burocrazia inesorabilmente miope? Quel che sopravvive di un’antica marginalizzata compagnanza è oggi preda della nostalgia ed avvitata nella rimembranza. Quel che potrebbe generare nuovi fermenti è nel naturale dell’humus, che si va manifestando in modo spontaneo, nelle case, nei cortili, nei parchi, sulle strade e sui social, per una crescente realtà di mezzo, che rimane lontana dai palazzi delle istituzioni e rifiuta astruse artefazioni, che va maturando gli anticorpi di una libertà che potrebbe, prima che poi, prevalere di fatto sull’algido Palazzo.
(pubblicato su Speciale Spiridon)