di Guelfo Tagliavini
Non voglio mettere il dito nella piaga ma quando leggo sul Il Messaggero del 14/03 che “Nella pubblica amministrazione il lavoro agile finora è rimasto al palo nonostante il diffondersi del coronavirus” e che “ all’inizio di questa settimana solo due statali su dieci avevano iniziato a lavorare in modalità remota” non posso non gridare il mio sconcerto e manifestare un grande senso di delusione.
Per chi abbia la voglia di leggere una serie di mie analisi sul tema, generosamente pubblicate dal Corriere delle Comunicazioni e successivamente da CORCOM, potrà valutare con quale determinazione io abbia messo in evidenza, a partire dall’anno 2013, i ritardi accumulati nella messa a punto di programmi e progetti di lavoro innovativo sia nel mondo dalla PA che in quello delle imprese private.
Lo scrivevo in qualità di consigliere della principale organizzazione dei dirigenti industriali ( Federmanager) ma anche come professionista a capo di un’azienda operante appunto nel campo della consulenza specializzata nell’innovazione dei processi produttivi, tra questi ,ovviamente, quelli relativi alle modalità innovative del lavoro.
Ed ecco che, ironia della sorte, anche se il termine ironia in questo caso non è dei più appropriati, una emergenza sanitaria, dalle dimensioni imprevedibili, pandemia, ci ha messo nelle condizioni di valutare in tempi rapidissimi, iniziative in grado di consentire al nostro sistema produttivo di mantenere un livello accettabile di funzionalità ed efficienza.
Abbiamo finalmente e brutalmente compreso il significato di “smart working”, purtroppo non anche messo in campo la migliore condizione per applicarlo.
E’ evidente infatti che la corsa disordinata, imposta dall’urgenza della situazione, stia determinando alcune criticità causate dalla carenza dei sistemi di interconnessione e da una mancata formazione sia nella fase di assegnazione dei compiti che nell’utilizzo dei necessari strumenti abilitanti.
Ma come si suol dire, faremo di necessità virtù; se non altro questa drammatica situazione avrà contributo ad azzerare o ridurre quel retaggio culturale che ha finora certificato che per ogni lavoratore servisse una “scrivania” e una sede di lavoro assegnata. Almeno lo spero…..