di Pierfrancesco Malu
Chissà che faccia hanno fatto Boris Johnson e Nigel Farage quando, pochi giorni fa, anche il Parlamento Europeo ha ratificato l’atto di separazione tra Regno Unito e Unione Europea, oltre tre anni e mezzo dopo il referendum sulla Brexit.
Il primo è l’attuale inquilino di Downing Street dopo essere già stato, tra le altre cose, Sindaco di Londra e Ministro degli esteri ed aver “fatto le scarpe” ai due primi ministri britannici precedenti Cameron e May i quali avevano rispettivamente proposto il referendum del 2016 e portato avanti le trattative con la UE in mezzo a mille difficoltà. Il Secondo, ancor più istrionico di Johnson, con il suo UKIP (United Kingdom Independence Party) era stato uno dei maggiori sostenitori del referendum prima e del leave poi, salvo poi uscire praticamente di scena.
Ma ora che questo lungo, tortuoso e non privo di rimpianti processo di divorzio – così come si conviene ad un matrimonio in cui, per la verità, non c’è mai stato il grande amore – si è concluso, cosa succede?
L’evento è storicamente rilevante anche perché è la prima fuoriuscita dall’Organizzazione dopo il lungo processo di integrazione che ci ha condotto fino ad oggi.
I prossimi 11 mesi rappresentano un periodo di transizione nel quale poco o nulla cambierà per quanto riguarda i rapporti economici e commerciale con il Regno Unito che rimane nell’unione doganale e nel mercato unico. Tuttavia, i cittadini britannici da subito non sono più anche cittadini europei e l’europarlamento farà a meno dei rappresentanti del Regno Unito. Londra dovrà, inoltre, rispettare tutte le norme Ue, anche quelle più contestate che riguardano la Corte europea di Giustizia, ma non prenderà parte alle decisioni politiche dell’Unione dei 27 Paesi e continuerà a pagare la sua quota per il bilancio comunitario.
Anche se la separazione è stata sancita, molto è ancora da stabilire tanto che entro il 31 dicembre 2020 dovranno essere definiti tutti i rapporti futuri tra UE e Regno Unito.
Scampato, quindi, il pericolo di una Hard Brexit rimangono da definire ancora innumerevoli passaggi relativi alla separazione. Il Regno Unito rinuncerà sicuramente al mercato unico e all’unione doganale: se i negoziati dei prossimi mesi non andranno a buon fine, potrebbero rispuntare i dazi sui prodotti scambiati tra Ue e Regno Unito. I primi abboccamenti tra le due parti, secondo il Guardian, dovrebbero avvenire i primi di marzo.
Per quanto riguarda poi un altro dei capisaldi dell’Unione, cioè la libera circolazione delle persone, anche questa verrà sicuramente meno nei prossimi mesi. Il Regno Unito non aveva mai aderito all’area Schengen, ma d’ora in poi per i viaggi si farà un viaggio nel passato, essendo necessario il passaporto e il visto.
Per il 2020, periodo di transizione, la Carta di Identità varrà ancora. Dal 2021, invece, per entrare in UK, a qualsiasi titolo, occorrerà avere un passaporto e poi il visto. Trasferirsi a Londra, per periodi superiori ai 3 o 6 mesi, sarà lo stesso che trasferirsi a New York. Sarà dunque necessario un visto (anche a fini turistici, seppur semplificato), per vivere e lavorare nel paese, a meno che le trattative con l’Unione Europea nel corso di quest’anno non cambino le regole. Questi aspetti riguardano particolarmente l’Italia che possiede una folta schiera di espatriati per lavoro nel Regno Unito (nella primavera del 2019 erano oltre 700 mila) i cui casi dovranno ora essere valutati singolarmente. Una sorte simile toccherà anche al programma Erasmus. Ciò che è sicuro a seguito delle polemiche scaturite nelle scorse settimane è che così com’è oggi il progetto sarà sicuramente riformato a partire dai prossimi mesi.
Da sabato scorso, poi, non sarà più possibile pagare in Euro anche in quei luoghi che per fini turistici davano corso alla doppia circolazione monetaria (già di per sé estremamente limitata in quanto lo UK non ha mai aderito alla moneta unica).
Andrà poi affrontata la già difficile questione tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord (essendo quest’ultima parte integrante del Regno Unito), sperando che non torni ad acutizzarsi un conflitto che rimane acceso sotto la cenere dopo decenni, così come sarà da valutare la posizione scozzese in cui Nicola Sturgeon – Primo ministro e leader del partito nazionalista locale – vorrebbe promuovere un nuovo referendum per l’indipendenza dall’Inghilterra.
Le conseguenze economiche della scelta politica sono ancora in buona parte da verificare e molto dipenderà dalla qualità degli accordi bilaterali che verranno stipulati nel corso del periodo di transizione. Quel che è certo è che assisteremo ad alcuni periodi di “rimbalzo” in cui l’economia e la politica monetaria britannica passeranno rapidamente dagli alti ai bassi e viceversa. Vedremo come sarà stabilizzata la questione e se un deprezzamento della Sterlina favorirà di più le esportazioni o penalizzerà il potere d’acquisto dei sudditi di Elisabetta II.
I prossimi mesi saranno ancora più decisivi di quanto già avvenuto, anche perché sarà questo periodo che definirà i reali contorni della separazione che, attualmente, è la condizione base dalla quale capire: come a dire che due coniugi hanno deciso di separarsi ma ora va stabilito chi prende la casa, chi paga gli alimenti e chi avrà l’affidamento dei figli.
I sovranisti nostrani plaudono lo scatto di indipendenza, mentre gli europeisti convinti sperano ancora in un pentimento del “popolo d’Albione”, nel mezzo c’è chi ritiene (tra cui il sottoscritto) che l’Unione Europea con al suo interno un Regno Unito convinto e partecipativo sarebbe stata più forte dal punto di vista economico e politico, in caso contrario, meglio un buon accordo “esterno” che porti ad una collaborazione proficua per due entità che, nel bene o nel male, sono costrette a stabilire norme di buon vicinato che convengano ad entrambe.
Infine, meglio buoni e cordiali amici che litigiosi amanti.